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Il morbo di Dupuytren, quando le dita non riescono a stare “diritte”

Tra le patologie che possono interessare la mano c’è il morbo di Dupuytren, malattia che riguarda le dita e che al di sotto degli 80 anni colpisce in particolare gli uomini –, con un’incidenza di 8 a 1 rispetto alle donne – mentre nelle donne si presenta con una certa frequenza solo a partire da questa età.

Di che cosa si tratta, in particolare, e quali disturbi comporta? Ne parliamo con il dottor Davide Smarrelli, responsabile di Chirurgia della mano di Humanitas Gavazzeni di Bergamo.

Dottor Smarrelli, che cos’è il morbo di Dupytren?

«È una patologia benigna proliferativa, e quindi non pericolosa, che colpisce la fascia palmare, struttura anatomica che è posta sotto la pelle della mano e sopra i tendini flessori. Il primo stadio del morbo è quello del nodulo che si avverte sotto pelle nel palmo della mano all’inizio con un’apparente callosità. Con il tempo questo callo prolifera e si trasforma fino a divenire un cordone che segue il profilo del dito – in genere l’anulare e il mignolo, ma anche il medio – e che progressivamente diviene molto duro e impedisce al dito di estendersi completamente, per cui questo appare più o meno piegato verso il basso».

Quali sono le cause del morbo di Dupuytren?

«Da qualche anno si è capito che questa patologia ha un’origine genetica, cioè si trasmette dai genitori ai figli. Un tempo si pensava fosse conseguenza di una vita poco attenta, oggi sappiamo che se anche il fumare o l’alcolismo possono in qualche modo incidere – così come alcune patologie come il diabete o l’epilessia – la prima causa rimane comunque la componente genetica».

Quando si deve cominciare a curare gli effetti del morbo di Dupuytren?

«Ci si deve pensare quando osservando la propria mano posta in verticale davanti agli occhi ci si accorge che alcune dita non sono più molto allineate e tendono a ripiegarsi su sé stesse. Del resto a quel punto il paziente può già avere dei problemi che riguardano lo svolgimento di varie azioni proprie della vita quotidiana. Ad esempio, quando si lava il volto tende a mettersi le dita negli occhi, oppure riesce a infilarsi un guanto con una certa fatica o ha difficoltà ad afferrare piccoli oggetti, come le monetine. Non si prova dolore, ma si accusano questi problemi di funzionalità, per cui è giusto cominciare a pensare a una cura».

Quali strumenti abbiamo a disposizione per la cura questo morbo?

«Un tempo si ricorreva quasi sempre alla chirurgia, con il classico intervento eseguito “a cielo aperto”. Oggi la percentuale di interventi chirurgici è molto diminuita grazie a un intervento percutaneo che attraverso l’utilizzo di un ago inserito sottopelle consente di “rompere” il cordone in più punti. Questa azione consente di esercitare una manovra di riadattamento del dito, che viene raddrizzato il più possibile, spesso anche completamente. Non sempre questo è possibile, perché negli anni la presenza di questo morbo contribuisce a irrigidire le articolazioni e quindi l’intervento sul cordone non è in grado di risolvere tutte le problematiche che nel frattempo si sono venute a creare. Resta il fatto che si riesce comunque a ottenere un buon miglioramento funzionale. Inoltre, anche se attualmente non è più sul mercato, il cordone può essere trattato con un’infiltrazione di un enzima, collage nasi, che “scioglie” il cordone e permette di eseguire le manovre di estensione del dito».

Si tratta di interventi in grado di eliminare gli effetti della patologia in modo perenne?

«No, gli interventi di tipo percutaneo non eliminano il Dupuytren, si limitano a interromperlo, per cui ci può essere una recidiva. Ciò non toglie che siano interventi ottimi dal punto di vista del risultato, perché nel giro di pochi giorni, senza apportare ferite alla mano che richiedono lunghi tempi per la guarigione, permettono in molti casi al paziente di riacquistare una mobilità manuale normale. L’intervento chirurgico, per questo, viene consigliato solo come ultima soluzione, nei casi in cui non sia più possibile intervenire in modo percutaneo perché il morbo si è così sviluppato da non potere essere più “spezzato”, o nelle recidive».