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Insufficienza mitralica

Insufficienza mitralica

 

L’insufficienza mitralica è una patologia caratterizzata da un difetto di chiusura della valvola mitrale che fa sì che parte del sangue pompato dal ventricolo sinistro refluisca nell’atrio sinistro invece che andare in aorta, provocando affaticamento e disturbi respiratori.

Che cos’è l’insufficienza mitralica?

In condizioni normali la valvola mitrale è formata da due sottili lembi mobili legati attraverso le corde tendinee a due muscoli (i muscoli papillari) che, contraendosi insieme al ventricolo sinistro in cui sono posizionati impediscono lo sbandieramento (prolasso) dei lembi mitralici nell’atrio sinistro: quando la valvola si apre i margini dei lembi si separano, consentendo al sangue di passare dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, e si riavvicinano quando la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare indietro. In un cuore sano la valvola mitrale separa ermeticamente l’atrio sinistro dal ventricolo sinistro. Quando, invece, questa valvola non si chiude adeguatamente ne consegue la cosiddetta insufficienza mitralica, una condizione in cui parte del sangue che dovrebbe essere spinto dal ventricolo sinistro nell’aorta ritorna invece all’interno dell’atrio. A prescindere dalla causa, questa condizione può comportare un affaticamento del cuore, con dilatazione del ventricolo sinistro. Questo può avere come conseguenze uno scompenso cardiaco e anomalie del ritmo cardiaco, come la fibrillazione atriale, ma anche l’endocardite.

Da cosa può essere causata l’insufficienza mitralica?

L’insufficienza mitralica può essere primitiva o secondaria. Nel primo caso sono presenti alterazioni anatomiche dell’apparato valvolare mitralico: alterazioni dei lembi valvolari provocati ad esempio da un’endocardite o dalla malattia reumatica, allungamento o rottura delle corde tendinee con conseguente prolasso dei lembi valvolari, calcificazioni dell’anello mitralico, rottura traumatica di un muscolo papillare. Nell’insufficienza mitralica secondaria la valvola è anatomicamente normale e il difetto di chiusura è determinato da una grave compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro (insufficienza cardiaca), che spesso è secondaria a una cardiopatia ischemica.

Con quali sintomi si manifesta l’insufficienza mitralica?

I sintomi dell’insufficienza mitralica sono correlati alla gravità e alla velocità di insorgenza e progressione; possono comprendere fiato corto (soprattutto durante l’attività fisica o da sdraiati), facile faticabilità, tosse (soprattutto di notte o da sdraiati), palpitazioni, gonfiore a piedi e caviglie.

Come si può prevenire l’insufficienza mitralica?

Per ridurre al minimo il rischio di insufficienza mitralica è fondamentale trattare adeguatamente le condizioni che potrebbero innescarla, come le infezioni alla gola che possono portare alla malattia reumatica (una sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche).

Diagnosi

Dopo un’accurata visita, se vengono riscontrati sintomi suggestivi di insufficienza mitralica che può rivelare tipicamente la presenza di un soffio cardiaco, il medico può prescrivere diversi esami diagnostici:

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Si possono visualizzare molteplici alterazioni, in special modo segni di dilatazione atriale sinistra, segni di ipertrofia e sovraccarico (“iperlavoro”) del ventricolo sinistro, aritmie come la fibrillazione atriale.

RX torace (radiografia del torace): possono essere presenti segni di dilatazione dell’atrio e del ventricolo sinistro e di congestione polmonare.

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Consente la valutazione del meccanismo e dell’entità dell’insufficienza mitralica, oltre che delle dimensioni dell’atrio e del ventricolo sinistro e della funzione contrattile di quest’ultimo, e della presenza di ipertensione polmonare. È possibile raccogliere le immagini in tempo reale anche mentre si esegue un test da sforzo (eco stress): l’esecuzione di un eco stress viene suggerita quando c’è discrepanza tra la gravità dei sintomi e l’entità dell’insufficienza mitralica a riposo.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso si introduce la sonda dalla bocca e la si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente di visualizzare meglio le valvole e le strutture paravalvolari. Viene suggerito quando l’ecocardiogramma transtoracico non è conclusivo e, in special modo, quando si sospetta un’endocardite.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente sta compiendo un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Si può compiere allo scopo di confermare la mancanza di sintomi in presenza di insufficienza mitralica grave e per valutare la tolleranza allo sforzo.

Coronarografia: è l’esame che permette la visualizzazione delle coronarie utilizzando l’iniezione di mezzo di contrasto radiopaco al loro interno. L’esame viene effettuato in un’apposita sala radiologica, nella quale vengono seguite tutte le misure di sterilità necessarie. L’iniezione del contrasto nelle coronarie presuppone il cateterismo selettivo di un’arteria e l’avanzamento di un catetere fino all’origine dei vasi esplorati. La coronarografia viene suggerita quando esiste il sospetto che l’insufficienza mitralica sia secondaria a una cardiopatia ischemica.

RM cuore con mdc: produce immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni utilizzando la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Consente la valutazione della morfologia delle strutture del cuore, della funzione cardiaca ed eventuali alterazioni del movimento di parete (ipocinesie o acinesie). La somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto consente inoltre di distinguere se eventuali alterazioni del movimento di parete sono causate da fibrosi (=assenza di vitalità miocardica) o da ischemia. Quest’indagine trova quindi la sua applicazione elettiva nell’insufficienza mitralica secondaria a cardiopatia ischemica, come “guida” a eventuali interventi di rivascolarizzazione miocardica.

Trattamenti

La terapia dell’insufficienza mitralica è correlata alla gravità del vizio valvolare, ai sintomi che lo accompagnano, alla presenza o meno di segni di disfunzione ventricolare sinistra, e al fatto che sia primitiva o secondaria.

Se l’insufficienza mitralica è primitiva e di entità lieve o moderata, è possibile limitarsi a periodici controlli clinici ed ecocardiografici.

In presenza di un’insufficienza mitralica cronica primitiva grave viene suggerito un intervento chirurgico di riparazione (preferibilmente) o di sostituzione della valvola mitralica.

La terapia dell’insufficienza mitralica cronica secondaria consiste invece nella terapia dell’insufficienza cardiaca che ne è la causa:

beta-bloccanti, ACE-inibitori/sartani, anti-aldosteronici, digossina;

diuretici in caso di accumulo di liquidi;

l’impianto di pacemaker (PM) biventricolari e/o defribrillatori automatici (ICD).

 

 

Ipertensione arteriosa

Ipertensione arteriosa

 

Che cos’è l’ipertensione arteriosa?

L’ipertensione arteriosa è una patologia caratterizzata dall’elevata pressione del sangue nelle arterie, che viene determinata dalla quantità di sangue pompata dal cuore e dalla resistenza delle arterie al flusso del sangue. Colpisce circa il 30% della popolazione adulta di entrambi i sessi e, nelle donne, è più frequente dopo la menopausa.

Quali sono le conseguenze?

L’ipertensione arteriosa non è una malattia, ma un fattore di rischio, ovvero una condizione che aumenta la probabilità che si verifichino altre malattie cardiovascolari (per esempio: angina pectoris, infarto miocardico, ictus cerebrale). Per questo motivo, è fondamentale riuscire ad individuarla e curarla, allo scopo di prevenire i danni che essa può provocare.

Si tratta di ipertensione arteriosa sistolica quando viene aumentata solo la pressione massima; al contrario, nell’ipertensione diastolica, vengono alterati i valori della pressione minima. Si definisce ipertensione sisto-diastolica la condizione in cui entrambi i valori di pressione (minima e massima) sono superiori alla norma.

Classicamente, e in conseguenza delle modificazioni che avvengono nell’organismo per effetto dell’invecchiamento, sono gli anziani e i grandi anziani (ultranovantenni) a soffrire più spesso di ipertensione arteriosa sistolica isolata, con valori di pressione massima anche molto alti, e pressione minima bassa. I soggetti più giovani, al contrario, soffrono più frequentemente di forme di ipertensione diastolica isolata.

Da cosa può essere causata l’ipertensione?

L’ipertensione arteriosa può essere classificata in primaria e secondaria.

Non esiste una causa precisa, identificabile e curabile dell’ipertensione arteriosa primaria (o essenziale), che rappresenta circa il 95% dei casi di ipertensione: gli elevati valori pressori sono il risultato dell’alterazione dei meccanismi complessi che regolano la pressione (sistema nervoso autonomo, sostanze circolanti che hanno effetto sulla pressione).

Nel restante 5% dei casi, invece, l’ipertensione è la conseguenza di malattie, congenite o acquisite, che interessano i reni, i surreni, i vasi, il cuore, e per questo viene definita ipertensione secondaria. In queste situazioni, l’individuazione e la rimozione delle cause (cioè, la cura della malattia di base) può essere accompagnata dalla normalizzazione dei valori pressori.

Al contrario dell’ipertensione arteriosa essenziale, che classicamente colpisce la popolazione adulta, l’ipertensione secondaria colpisce anche soggetti più giovani e spesso è caratterizzata da valori di pressione più alti e più difficilmente controllabili con la terapia farmacologica.

È importante in alcuni casi evidenziare la dipendenza dell’aumento dei valori di pressione arteriosa dall’uso (talvolta dall’abuso) di alcune sostanze tra cui, per esempio, la liquirizia, gli spray nasali, il cortisone, la pillola anticoncezionale, la cocaina e le amfetamine. In queste situazioni, se si sospende l’assunzione di queste sostanze, i valori pressori tornano alla normalità.

Con quali sintomi si manifesta l’ipertensione?

L’aumento dei valori pressori non è sempre correlato alla comparsa di sintomi, soprattutto se avviene in modo non improvviso: l’organismo si abitua in modo progressivo ai valori sempre un po’ più elevati, e non invia segnali al paziente. Per questo, in molte delle persone colpite da ipertensione non sono presenti sintomi, anche in presenza di valori pressori molto elevati.

In ogni caso, i sintomi associati all’ipertensione arteriosa non sono specifici, e per questo sono spesso sottovalutati o imputati a condizioni diverse. Tra i sintomi più comuni troviamo:

Mal di testa, specie al mattino

Stordimento e vertigini

Ronzii nelle orecchie (acufeni, tinniti)

Alterazioni della vista (visione nera, o presenza di puntini luminosi davanti agli occhi)

Perdite di sangue dal naso (epistassi)

Nei casi di ipertensione secondaria, ai sintomi aspecifici possono esserne associati altri, più specifici, provocati dalla malattia di base.

Il fatto che i sintomi siano scarsi e aspecifici rappresenta la ragione principale per cui spesso il paziente non si accorge di avere la pressione alta. Per questo è fondamentale controllare periodicamente la pressione: fare diagnosi precoce di ipertensione arteriosa significa prevenire i danni ad essa legata e, quindi, malattie cardiovascolari anche invalidanti.

Quali sono i fattori che predispongono le persone a questa condizione?

Familiarità: la presenza, in famiglia, di soggetti ipertesi comporta un aumento di probabilità che un paziente sviluppi ipertensione arteriosa.

Età: la pressione arteriosa aumenta con l’avanzare dell’età, come conseguenza dei cambiamenti che si verificano a carico dei vasi arteriosi (che, invecchiando, diventano più rigidi). Ad un certo punto, mentre la pressione sistolica (massima) continua ad aumentare per effetto dell’età, la diastolica (minima) non aumenta più o, addirittura, tende a diminuire; questo spiega le forme di ipertensione sistolica isolata tipica dei grandi anziani.

Sovrappeso: sovrappeso e obesità, attraverso meccanismi diversi e complessi, sono correlati ad un incremento dei valori pressori.

Diabete: questa condizione, grave e assai diffusa tra la popolazione adulta, si associa spessissimo ad un aumento della pressione arteriosa, elevando in modo significativo il rischio di malattie cardiovascolari.

Fumo: il fumo di sigaretta altera in modo acuto i valori di pressione arteriosa (dopo aver fumato, la pressione resta più alta per circa mezz’ora); a questo, si aggiungono i danni cronici che il fumo provoca ai vasi arteriosi (perdita di elasticità, danno alle pareti vascolari, predisposizione alla formazione di placche aterosclerotiche).

Disequilibrio di sodio e potassio: il consumo di cibi troppo salati e, in generale, un’alimentazione troppo ricca di sodio o troppo povera di potassio, possono contribuire a determinare l’ipertensione arteriosa.

Alcool: un consumo eccessivo di alcoolici (più di un bicchiere al giorno per le donne, due per gli uomini) può contribuire all’innalzamento dei valori pressori, oltre che provocare danni al cuore (che, in conseguenza del troppo alcool, tende a dilatarsi e a perdere la sua funzione di pompa, con gravi conseguenze su tutto l’organismo).

Stress: lo stress (fisico ed emotivo) contribuisce al mantenimento di valori di pressione più alti. Questo spiega, per esempio, perché in occasione delle visite mediche, la pressione è spesso più alta rispetto a quella che il paziente si misura al domicilio; perché la pressione possa essere più alta nei giorni lavorativi rispetto ai periodi di vacanza, ed anche perché i valori di pressione aumentino mentre si fa esercizio fisico.

Sedentarietà: non esiste certezza riguardo alla correlazione tra sedentarietà ed aumento della pressione arteriosa; è certo, tuttavia, che l’attività fisica moderata e costante (mantenendo attivo l’organismo e favorendo il controllo del peso) contribuisca a ridurre i valori pressori e a potenziare le prestazioni fisiche (l’allenamento aumenta progressivamente la capacità di tollerare gli sforzi).

Diagnosi

La misurazione della pressione arteriosa viene indicata attraverso due valori, pressione sistolica (massima) e pressione diastolica (minima), che dipendono dal fatto che il muscolo cardiaco si contrae (sistole) e si rilassa (diastole) tra un battito e l’altro.

I valori normali per la popolazione adulta sono compresi entro i 140/85 mmHg. Pertanto, si tratta di ipertensione quando uno o entrambi i valori di pressione sono costantemente superiori alla norma.

Poiché l’aumento dei valori pressori spesso non è correlato a sintomi e poiché, quando presenti, questi non sono specifici, l’unico modo per fare diagnosi di ipertensione arteriosa è quello di sottoporsi periodicamente a misurazioni della pressione. In caso contrario, è possibile effettuare una diagnosi quando i valori di pressione, alti da parecchio tempo, hanno già compiuto un danno o, addirittura, in occasione di eventi acuti (infarto miocardico, ictus cerebrale).

Una volta fatta una diagnosi di ipertensione arteriosa, è importante sottoporsi ad alcuni esami allo scopo di comprendere se l’ipertensione ha già danneggiato i vasi, il cuore, i reni, aiutando il medico a definire il profilo di rischio cardiovascolare dei pazienti e a scegliere la terapia antiipertensiva più adatta.

Trattamenti

Come si può curare l’ipertensione?

Il trattamento dell’ipertensione arteriosa, anche quando viene previsto il ricorso a farmaci, non può assolutamente prescindere da cambiamenti nello stile di vita.

Il trattamento della pressione arteriosa deve avere come obiettivo quello di riportare i valori pressori alla normalità (cioè, entro i 140/85 mmHg, a meno di patologie concomitanti, che impongono valori di pressione più bassi): non è sufficiente, pertanto, abbassare un po’ la pressione, ma è importante normalizzarla (diversamente, il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari resterà aumentato).

Un’alimentazione povera di sale, un’attività fisica moderata e costante (30 minuti/die di camminata veloce o di cyclette), il controllo del peso corporeo (la perdita di peso, in caso di sovrappeso/obesità), l’astensione dal fumo di sigaretta, un consumo controllato di alcoolici, sono tutti atteggiamenti consigliabili in caso di riscontro di un incremento di valori pressori. Nei casi di lievi aumenti della pressione arteriosa, ed in mancanza di altri fattori di rischio correlati (fumo, diabete, ipercolesterolemia, obesità), queste modificazioni dello stile di vita possono essere la sola terapia prescritta dal medico, e possono essere efficaci nel riportare la pressione arteriosa a valori normali.

Una volta effettuata la diagnosi di ipertensione arteriosa e corrette le abitudini di vita, è possibile che sia necessario cominciare una terapia farmacologica, allo scopo di normalizzare la pressione arteriosa.

È importante sapere che la terapia antiipertensiva è una terapia cronica, che deve essere assunta per molti anni (di rado capita che un paziente iperteso ad un certo punto possa smettere di assumere i farmaci per la pressione).

Sono disponibili molti farmaci che agiscono sul controllo della pressione arteriosa con meccanismi diversi; sono tutti efficaci e sicuri, per cui la scelta del tipo di antiipertensivo da utilizzare viene fatta dal medico in base alla storia del paziente e alla presenza di altre patologie associate.

Per alcuni pazienti è sufficiente utilizzare un solo antiipertensivo per normalizzare la pressione arteriosa, per altri risulta opportuno ricorrere all’associazione di più farmaci, che agendo con meccanismi diversi concorrono al controllo della pressione. Il fatto che sia necessario assumere più antiipertensivi non significa avere un’ipertensione più aggressiva, ma più semplicemente si deve alla diversa reazione che ogni paziente può avere verso le singole terapie. Per questo, potrebbe volerci un po’ di tempo prima che si arrivi a trovare il o i farmaci efficaci e meglio tollerati. E può anche succedere che dopo anni di terapia, un paziente richieda l’aggiunta o il cambio di un farmaco: non è colpa dell’antiipertensivo che perde efficacia, ma è l’effetto della pressione arteriosa, che con gli anni cambia.

In alcuni pazienti anche l’utilizzo anche di 4-5 farmaci antiipertensivi a dosaggio pieno può non essere sufficiente a controllare la pressione arteriosa: in questi casi si tratta di ipertensione arteriosa resistente. Di recente si è proposto l’uso di nuove terapie non farmacologiche per il trattamento di queste forme di ipertensione arteriosa (denervazione delle arterie renali).

Farmaci antiipertensivi:

ACE inibitori, antagonisti del recettore per l’angiotensina II (Angiotensin II receptor Blocker – ARBs) o sartani, inibitori diretti della renina: abbassano la pressione interferendo con la produzione di alcune sostanze circolanti che costituiscono il cosiddetto sistema renina-angiotensina-aldosterone. Ogni classe di farmaci risulta attiva in un punto diverso di questo sistema.

Calcio antagonisti: controllano la pressione determinando vasodilatazione.

Diuretici: aiutano l’organismo a smaltire acqua e sali minerali (sodio)

Alfa e beta bloccanti: agiscono a livello dei meccanismi nervosi di controllo periferico della pressione arteriosa

Simpaticolitici ad azione centrale: agiscono a livello dei meccanismi nervosi di controllo centrale (sistema nervoso centrale) della pressione arteriosa

Ipertensione polmonare

Ipertensione polmonare

 

Con il termine “ipertensione polmonare” viene indicato un incremento della pressione del sangue all’interno dei vasi arteriosi del polmone causato dalla distruzione, dall’ispessimento parietale, dal restringimento o dall’ostruzione dei vasi stessi.

Che cos’è l’ipertensione polmonare?

Con il termine “ipertensione polmonare” viene indicato un incremento della pressione del sangue all’interno dei vasi arteriosi del polmone causato dalla distruzione, dall’ispessimento parietale, dal restringimento o dall’ostruzione dei vasi stessi.

La pressione polmonare media è normalmente di circa 14 mmHg a riposo: si può cominciare a parlare di ipertensione polmonare quando la pressione polmonare media supera i 25 mmHg. Questa condizione sottopone il ventricolo destro (deputato a pompare sangue verso i polmoni) a un sovraccarico di pressione e volume, che può portarlo all’insufficienza contrattile e allo scompenso.

Se l’ipertensione polmonare non viene opportunamente trattata, può degenerare provocando un ulteriore restringimento dei vasi sanguigni e aggravare i sintomi tipici della patologia.

Da cosa può essere causata l’ipertensione polmonare?

L’ipertensione polmonare può essere di due tipi:

  1. Primitiva o idiopatica: rappresenta una condizione rara che colpisce soprattutto il sesso femminile. Compare più frequentemente tra i 30 e i 50 anni. Sebbene ancora non si conosca la causa dell’ipertensione polmonare primitiva, la patologia può risultare correlata a particolari mutazioni genetiche.
  2. Acquisita o secondaria: è molto più diffusa della forma primitiva. La patologia nella forma secondaria è stata osservata in associazione a:

Malattie polmonari come l’enfisema, la fibrosi polmonare, la broncopneumopatia cronica ostruttiva e la patologia respiratoria associata ai disordini del sonno (apnee notturne).

Embolia polmonare e ipertensione polmonare trombo embolica cronica.

Malattie autoimmuni del tessuto connettivo, come la sclerodermia o il lupus eritematoso sistemico.

Difetti cardiaci congeniti o malattie del cuore sinistro (valvulopatie, grave insufficienza cardiaca).

Anemia emolitica cronica (anemia falciforme).

Malattie croniche del fegato con ipertensione portale.

Infezioni da HIV.

Assunzione di alcuni farmaci (anoressizzanti, inibitori del reuptake della serotonina) o di sostanze stimolanti (cocaina, anfetamine).

Con quali sintomi si manifesta l’ipertensione polmonare?

La sintomatologia dell’ipertensione polmonare può comprendere:

Difficoltà di respirazione, in particolare durante sforzi fisici.

Stanchezza o affaticabilità.

Svenimenti.

Nelle fasi avanzate della patologia le difficoltà di respirazione possono manifestarsi anche in una situazione di riposo ed è possibile che compaiano dolori al petto tipici dell’angina pectoris (segno di sofferenza cardiaca) ed edema (ristagno di liquidi) agli arti inferiori.

Come si può prevenire l’ipertensione polmonare?

In relazione all’ipertensione polmonare secondaria la prevenzione può essere mirata a evitare/trattare tutte le condizioni mediche e i fattori di rischio che possono comportare lo sviluppo della malattia.

Per quanto riguarda l’ipertensione polmonare primitiva, poiché la causa all’origine di questa forma della patologia è perlopiù sconosciuta, non è possibile prevenirla.

Diagnosi

L’ecocardiografia transtoracica rappresenta la tecnica non invasiva migliore per approcciare la diagnosi di ipertensione polmonare. Un ecocardiogramma consente di visualizzare molto accuratamente il cuore e di registrare le alterazioni morfologiche e strutturali delle camere cardiache destre che si sviluppano come conseguenza dell’incremento dei valori di pressione polmonare. La metodica Doppler consente inoltre di effettuare una stima indiretta della pressione sistolica (cioè la pressione massima) nell’arteria polmonare.

Per effettuare una diagnosi definitiva è però necessario sottoporsi al cateterismo cardiaco: attraverso questo esame si può infatti misurare in modo diretto alcuni parametri, la cui alterazione è correlata ad una prognosi sfavorevole della malattia: la pressione nell’atrio destro del cuore, la pressione polmonare media, la portata cardiaca. Tramite il cateterismo cardiaco si può inoltre eseguire il test di vaso-reattività polmonare: attraverso la somministrazione di farmaci che inducono la dilatazione dei vasi sanguigni polmonari si possono identificare i pazienti che presentano una residua capacità di vasodilatazione polmonare e che potrebbero trarre giovamento dalle terapie farmacologiche.

Possono inoltre risultare utili:

Spirometria: il paziente respira tramite un boccaglio e l’apparecchio collegato al boccaglio misura vari aspetti della respirazione, per riscontrare eventuali anomalie che rimandano a patologie polmonari.

Angio-tomografia computerizzata del torace e angiopneumografia: sono esami radiologici che consentono la visualizzazione del decorso delle arterie polmonari e la loro eventuale occlusione.

Scintigrafia polmonare perfusoria: con questo esame si può ottenere una “fotografia” della circolazione sanguigna nei polmoni. In presenza di ostruzioni vengono rilevati difetti di perfusione.

Emogasanalisi (EGA): è un prelievo di sangue arterioso allo scopo di misurare la quantità di ossigeno e di anidride carbonica in esso presenti.

Test del cammino e test da sforzo cardiopolmonare: per valutare la tolleranza cardiaca allo sforzo e la presenza di eventuale insufficienza respiratoria.

Trattamenti

Il trattamento varia a seconda che si soffra della forma primitiva o secondaria della malattia.

Nel caso di ipertensione polmonare secondaria, la terapia è basata principalmente sui trattamenti mirati a curare la condizione che ha scatenato la patologia.

Il trattamento dell’ipertensione polmonare primaria è basato sulla somministrazione di farmaci che possano vasodilatare il circolo polmonare come calcio antagonisti, prostacicline, farmaci antiendotelina e inibitori della fosfodiesterasi tipo 5 (sildenafil e simili).

In molti casi viene suggerito l’impiego di anticoagulanti orali, che possono essere correlati a diuretici e ad altre terapie dell’insufficienza cardiaca, in caso di scompenso di circolo.

 

 

Ipotensione

Ipotensione

 

L’ipotensione è una condizione in cui la pressione del sangue è molto più bassa rispetto ai valori considerati normali. Solitamente può essere trattata con successo per evitare che quantità sufficienti di ossigeno e nutrienti non raggiungano cuore, cervello e altri organi e tessuti dell’organismo.

Che cos’è l’ipotensione?

La pressione del sangue varia da persona a persona. Generalmente si parla di ipotensione quando c’è una condizione in cui la pressione massima (o sistolica) è uguale o inferiore a 90 mmHg e quella minima (o diastolica) è uguale o inferiore a 60 mmHg. L’ipotensione può essere causata da molteplici fattori di diversa rilevanza: si varia pertanto da una banale disidratazione a disturbi più seri. Cali pressori improvvisi possono determinare un afflusso ridotto di sangue al cervello con il rischio di svenimenti e cadute a terra, le cui conseguenze sono particolarmente disastrose nei soggetti anziani (pericolo di fratture gravi). Solitamente si tratta di un problema risolvibile, a patto che la sua causa sia correttamente individuata.

Da cosa può essere causata l’ipotensione?

Alla base della diminuzione della pressione sanguigna possono esserci un’emorragia improvvisa, una grave infezione, uno scompenso cardiaco, uno shock anafilattico, danni ai nervi che regolano le variazioni pressorie della circolazione come nel caso di diabete, aritmie e disidratazione. Si può avere una comparsa di ipotensione in concomitanza con cambiamenti repentini della postura, come avviene nel caso di ipotensione ortostatica, soprattutto al passaggio rapido dalla posizione sdraiata alla posizione eretta. In questo caso i disturbi scompaiono entro pochi minuti o addirittura in pochi secondi se il soggetto ripristina rapidamente la posizione di partenza. Una situazione simile si verifica nel caso dell’ipotensione ortostatica postprandiale, in cui il problema compare dopo i pasti ed interessa soprattutto gli anziani. L’aumento del sangue confinato alla regione gastro-intestinale, per garantire il miglior svolgimento del lavoro digestivo, sottrae sangue agli altri organi e contribuisce all’abbassamento della pressione arteriosa sistemica. Nei bambini e nei giovani adulti si verifica più frequentemente l’ipotensione neuromediata, un problema che può fare la sua comparsa quando si sta in piedi per un periodo di tempo troppo lungo. Infine, la pressione può essere ridotta notevolmente dall’alcol e da alcuni farmaci, soprattutto i medicinali contro l’ansia e la depressione, i diuretici, gli antipertensivi in generale e alcuni antidolorifici.

Con quali sintomi si manifesta l’ipotensione?

I principali sintomi dell’ipotensione sono: vista appannata, stato confusionale, vertigini, svenimento, stordimento, nausea o vomito, sonnolenza e debolezza.

Come si può prevenire l’ipotensione?

Le misure preventive sono indicate soprattutto nelle forme di ipotensione ortostatica e di ipotensione neuromediata. Nel primo caso è bene evitare una eccessiva disidratazione, attraverso l’assunzione di una congrua dose di liquidi nella giornata; è fortemente consigliato inoltre di evitare di alzarsi velocemente dalla posizione seduta o sdraiata, di non bere alcolici ed eventualmente di utilizzare calze contenitive. In caso di ipotensione neuromediata è necessario evitare di stare in piedi troppo a lungo.

Diagnosi

Per una diagnosi dell’ipotensione è necessaria una visita medica in cui vengono valutati pressione sanguigna in clino e ortostatismo, polso, respirazione e temperatura corporea, e in cui vengono raccolte informazioni sui farmaci assunti, sull’alimentazione, su malattie o traumi recenti.

Potrebbero essere prescritte delle analisi di primo livello tra cui:

Esami del sangue completi + esame urine

Elettrocardiogramma

Radiografia del torace

Trattamenti

Se l’ipotensione non è correlata ad alcun sintomo, generalmente non è necessario un trattamento. Negli altri casi la terapia più adatta dipende dalla causa dell’abbassamento della pressione sanguigna.

In caso di ipotensione ortostatica potrebbe essere necessario limitare le dosi di alcuni dei farmaci assunti o sostituirli con altri medicinali, bere di più per evitare la disidratazione e indossare calze contenitive.

Per chi soffre di ipotensione neuromediata sarebbe opportuno evitare di stare in piedi troppo a lungo, mantenersi idratato e aumentare il consumo di sale; solo nei casi più gravi potrebbe essere necessario assumere farmaci specifici.

Per le forme di ipotensione più gravi è necessario effettuare una valutazione medica approfondita. Spesso vengono associate al ricovero ospedaliero e all’esecuzione di indagini specialistiche, oltre che alla somministrazione di terapie adatte alla causa riconosciuta dell’ipotensione.

Sindrome del QT Lungo (LQTS)

Sindrome del QT Lungo (LQTS)

 

È una cardiopatia provocata da un difetto del battito cardiaco, difetto del processo di ripolarizzazione ventricolare (fase successiva alla contrazione ventricolare) che in questi pazienti avviene in un tempo più lungo rispetto alla norma. Questa fase del battito è indicata come intervallo QT e risulta allungata in modo patologico nei pazienti affetti da LQTS. Questa anomalia elettrica del battito cardiaco si presenta con una grande disomogeneità elettrica della ripolarizzazione ventricolare, il miocardio ventricolare diventa altamente vulnerabile; l’extrasistole che insorge in tale periodo può innescare un’aritmia rapidissima, sincopale e spesso fatale.

Le aritmie ventricolari da LQTS, come per esempio torsioni di punta o tachicardie ventricolari, si presentano con una perdita di coscienza (sincopi). Le anomalie della ripolarizzazione ventricolare sono originate da alterazioni di alcune proteine responsabili del trasporto degli ioni potassio e sodio mediante la membrana delle cellule cardiache, funzione fondamentale per il mantenimento della normale attività elettrica del cuore. I difetti di questi canali possono avere un carattere genetico (nelle forme ereditarie della sindrome), ma possono anche essere provocati dall’azione di alcuni farmaci come antiaritmici, antimicotici ecc.

Fra le LQTS genetiche si possono distinguere forme simili tra loro ma secondarie ad alterazioni in geni diversi. Sono stati identificati diversi geni, le cui mutazioni causano LQTS: ad esempio gene KCNQ1 o KvLQT1 cromosoma 11 che genera LQT1, gene KCNH2 o HERG cromosoma 7 che genera LQT2 ecc. Solitamente la sindrome del QT lungo viene trasmessa con modalità autosomica dominante.

Diagnostica

Elettrocardiogramma a 12 derivazioni

Trattamenti

Terapia con farmaci betabloccanti o con farmaci a base di potassio

Impianto del defibrillatore

Sindrome da prolasso valvolare mitralico

Sindrome da prolasso valvolare mitralico

 

La sindrome da prolasso valvolare mitralico è una patologia caratterizzata da un’alterazione di una delle valvole cardiache, la valvola mitrale, indicata come “prolasso della valvola mitrale”. Se si ha un corretto funzionamento del cuore la valvola mitrale si chiude completamente durante la contrazione del ventricolo sinistro e impedisce al sangue di refluire nell’atrio sinistro; nei soggetti affetti da prolasso mitralico uno (più spesso il posteriore) o entrambi i lembi della valvola sbandiera in atrio sinistro quando il ventricolo sinistro si contrae, impedendo la perfetta chiusura della valvola.

Che cos’è la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

In condizioni normali la valvola mitrale è costituita da due sottili lembi mobili legati attraverso corde tendinee a due muscoli (i muscoli papillari) che, nel contrarsi insieme al ventricolo sinistro dove sono collocati impediscono lo sbandieramento dei lembi mitralici nell’atrio sinistro: i margini dei lembi vengono separati quando la valvola si apre, consentendo il passaggio del sangue dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, e si riavvicinano quando la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare indietro. Il prolasso valvolare mitralico è lo sbandieramento in atrio sinistro di uno o entrambi i lembi della valvola mitrale quando il ventricolo sinistro si contrae. Questo difetto valvolare interessa il 6% della popolazione circa, e colpisce in particolar modo il sesso femminile.

Da cosa può essere causata la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Si parla di forme “primarie” di prolasso valvolare mitralico – che possono essere familiari e non familiari – quando alla base ci sono condizioni come la sindrome di Marfan o altre patologie del connettivo; queste forme sono caratterizzate da un’esuberanza di tessuto nei lembi valvolari. Si parla di forme “secondarie” quando il prolasso è provocato da altre problematiche che coinvolgono il cuore, tra cui: cardiopatia ischemica, endocardite, difetto interatriale, cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, forme tumorali.

Con quali sintomi si manifesta la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Nella maggior parte dei casi questa valvulopatia non è associata a sintomi particolari e consente di vivere una vita normale. Alcuni sintomi comunque possono essere:

dolore retrosternale prolungato, non associato all’esercizio fisico

palpitazioni

sincopi (ossia svenimenti)

Come si può prevenire la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Purtroppo non è possibile prevenire questo tipo di valvulopatia. Tuttavia, si può ridurre la probabilità di sviluppare le complicazioni a essa correlate seguendo le indicazioni del medico e assumendo i medicinali consigliati, quando vengono prescritti.

Diagnosi

Spesso questa valvulopatia risulta asintomatica e si ha una diagnosi spesso occasionale. La diagnosi è suggerita dal riscontro all’auscultazione cardiaca dei reperti tipici di questa valvulopatia (click seguito da un soffio). Sarà il medico poi a decidere se richiedere degli esami strumentali, come:

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Di solito è normale, ma a volte si possono riscontrare alterazioni della ripolarizzazione o aritmie.

Ecocardiogramma: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È l’esame più importante: permette la visualizzazione accurata del movimento dei lembi mitralici, permettendo un’appropriata valutazione dell’entità del prolasso e del suo meccanismo.

ECG dinamico secondo Holter: l’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG. È indicato nei soggetti che segnalano palpitazioni per la valutazione di eventuali aritmie.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente compie un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Il test viene effettuato seguendo protocolli predefiniti, allo scopo di valutare al meglio la riserva funzionale del circolo coronarico. Viene interrotto alla comparsa di sintomi, alterazioni ECG o pressione elevata o una volta raggiunta l’attività massimale per quel paziente in assenza di segni e sintomi indicativi di ischemia. Viene suggerito per i soggetti che riferiscono sincopi o dolore toracico.

Trattamenti

Nella maggior parte dei casi il prolasso della valvola mitrale è asintomatico e il trattamento non risulta necessario. Sono opportuni periodici controlli clinici ed ecocardiografici. Se ci sono aritmie, può essere prescritto l’impiego di antiaritmici; i farmaci di prima scelta sono i beta-bloccanti.

 

Stenosi mitralica

Stenosi mitralica

 

La stenosi mitralica o stenosi della valvola mitrale è una condizione patologica caratterizzata dal non corretto funzionamento della valvola mitrale – ovvero la valvola cardiaca che consente al sangue di passare dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, la principale camera di pompaggio del cuore – a causa di un restringimento (stenosi).

Che cos’è la stenosi mitralica?

In condizioni normali la valvola mitrale è costituita da due sottili lembi mobili legati attraverso corde tendinee a due muscoli (i muscoli papillari) che, nel momento in cui si contraggono insieme al ventricolo sinistro dove sono posizionati, impediscono lo sbandieramento (prolasso) dei lembi mitralici nell’atrio sinistro: i margini dei lembi vengono separati quando la valvola si apre, consentendo al sangue di passare dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, e si riavvicinano quando la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare indietro.

Però è possibile che la valvola abbia delle alterazioni che ne provocano un restringimento (stenosi):

Presenza di ring sopramitralico: in questo caso un anello di tessuto fibroso al di sopra della valvola mitrale limita il passaggio di sangue all’interno della valvola.

Valvola mitrale “a paracadute”: i lembi della valvola sono allungati e collegati a un unico muscolo papillare.

Ispessimento e fusione dei lembi, che non possono più muoversi indipendentemente l’uno dall’altro.

La presenza di una stenosi mitralica determina un aumento della pressione nell’atrio sinistro, per permettere al sangue di passare dall’atrio al ventricolo sinistro. Questo meccanismo compensatorio ne provoca a sua volta altri: incremento della pressione nelle vene che dai polmoni riportano il sangue al cuore, con conseguente accumulo di liquido nei polmoni (congestione), e incremento della pressione nelle arterie polmonari (ipertensione polmonare), che sottopone il ventricolo destro a un sovraccarico di lavoro, che alla lunga può sfiancarlo, generando un’insufficienza cardiaca. Se non viene curata, la stenosi della valvola mitrale può quindi avere gravi conseguenze.

Da cosa può essere causata la stenosi mitralica?

La causa di gran lunga più frequente di stenosi mitralica è la malattia reumatica, una sindrome autoimmune che può essere innescata da infezioni streptococciche. Questa affezione – sempre più rara nei Paesi industrializzati, ma ancora molto comune nei Paesi in via di sviluppo – può causare danni ai lembi della valvola mitrale impedendo, quindi, il loro corretto funzionamento. La malattia reumatica può causare l’ispessimento e la fusione dei due lembi della valvola impedendole di aprirsi correttamente nel primo caso e di aprirsi e chiudersi correttamente nel secondo.

Alla base della stenosi mitralica è possibile rilevare anche un difetto cardiaco congenito:

è possibile che un bambino nasca con un restringimento della valvola mitrale e sviluppi una stenosi mitralica significativa nei primi anni di vita;

oppure si può nascere con una valvola mitralica difettosa che mette a rischio di sviluppare una stenosi mitralica in età avanzata.

Anche la calcificazione della valvola può essere una causa di stenosi mitralica: con l’avanzare dell’età, è possibile che si accumulino depositi di calcio a livello dell’anello valvolare mitralico, determinandone il restringimento.

Con quali sintomi si manifesta la stenosi mitralica?

Non sempre la stenosi mitralica è associata a sintomi particolari: si può soffrire di questa condizione e sentirsi bene, oppure si possono riscontrare sintomi modesti che permettono di condurre una vita senza particolari limitazioni per decenni. La sintomatologia – che può insorgere o peggiorare improvvisamente – include:

stanchezza e facile faticabilità

mancanza di respiro, soprattutto sotto sforzo o quando ci si sdraia

gonfiore ai piedi e alle caviglie

palpitazioni

frequenti infezioni respiratorie (es. bronchite)

tosse stizzosa

dolore toracico

Come si può prevenire la stenosi mitralica?

Il modo migliore per effettuare una prevenzione della stenosi della valvola mitrale è prevenirne la causa più comune, ossia la malattia reumatica. È importante quindi fare un corretto trattamento antibiotico delle infezioni alla gola provocate da streptococchi. Attualmente grazie all’utilizzo degli antibiotici, nei Paesi industrializzati la malattia reumatica è assai rara.

Diagnosi

Per effettuare la diagnosi di stenosi mitralica, il medico vi ausculterà il cuore con lo stetoscopio. Oltre al cuore, il medico ausculterà i polmoni per verificare l’eventuale presenza di congestione polmonare. Nel caso in cui si rilevino rumori cardiaci anomali e/o di congestione polmonare, il medico potrà prescrivere l’esecuzione di diversi esami strumentali. Tra questi:

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. L’alterazione più frequente provocata dalla stenosi mitralica è la comparsa di segni di dilatazione dell’atrio sinistro; si possono poi presentare aritmie, tipicamente la fibrillazione atriale.

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Rappresenta l’esame più importante. Consente la valutazione del meccanismo e dell’entità della stenosi mitralica, oltre che le dimensioni dell’atrio sinistro e del ventricolo destro e la funzione contrattile di quest’ultimo, e la presenza di ipertensione polmonare. Le immagini in tempo reale possono essere raccolte anche mentre si esegue un test da sforzo (eco stress): l’esecuzione di un eco stress viene suggerita quando c’è discrepanza tra la gravità dei sintomi e l’entità della stenosi mitralica a riposo.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso la sonda si introduce dalla bocca e si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Permette una visualizzazione migliore delle valvole e delle strutture paravalvolari. È importante per pianificare la strategia terapeutica.

ECG dinamico secondo Holter: l’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG. Può registrare aritmie.

RX torace: permette la valutazione di dimensioni e forma del cuore; l’eventuale dilatazione dell’atrio sinistro; l’eventuale presenza di liquido nei polmoni (congestione).

Cateterismo cardiaco: metodica invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione delle informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue e sulla pressione all’interno delle camere cardiache e delle arterie e delle vene polmonari. Registra la presenza di un gradiente di pressione transmitralico e, nei casi più gravi, ipertensione polmonare e disfunzione contrattile del ventricolo destro. Viene ormai proposto raramente: si effettua in genere quando si verifica una discrepanza tra la gravità dei sintomi e l’entità della stenosi all’ecocardiogramma.

Trattamenti

La terapia della stenosi della valvola mitrale comprende farmaci e diverse procedure interventistiche: la scelta viene fatta in base alle caratteristiche del paziente e alla gravità della stenosi mitralica.

In caso di stenosi mitralica lieve o moderata sono sufficienti periodici controlli clinici ed ecocardiografici.

La terapia farmacologica della stenosi mitralica comprende:

Farmaci anticoagulanti per prevenire eventi embolici in caso di fibrillazione atriale, pregressi eventi embolici, presenza di un trombo nell’atrio sinistro.

Farmaci che rallentano la frequenza cardiaca, come i beta-bloccanti o i calcio-antagonisti, in presenza di fibrillazione atriale ad ala frequenza.

Diuretici: in caso di accumulo di liquidi.

La terapia interventistica della stenosi mitralica comprende la commissurotomia con palloncino che consiste nella dilatazione della valvola stenotica ottenuta mediante l’introduzione di un palloncino tramite catetere attraverso un vaso sanguigno del braccio o dell’inguine. Una volta posizionato il palloncino sulla punta del catetere viene gonfiato, provocando la dilatazione della valvola. Il palloncino viene poi sgonfiato ed estratto dal corpo insieme al catetere. Nel tempo, può essere necessario ripetere la procedura.

La terapia chirurgica della stenosi mitralica include:

la commissurotomia, che è la semplice dilatazione della valvola;

la valvuloplastica, quando il chirurgo “ripara” la valvola;

la sostituzione della valvola mitrale, quando il chirurgo rimuove la valvola mitrale danneggiata e la sostituisce con una valvola protesica meccanica o biologica.

 

 

Tachicardia da rientro nodale (TRN)

Tachicardia da rientro nodale (TRN)

 

Patologia che rientra nella categoria delle tachiaritmie: si tratta di una delle più comuni tachicardie sopraventricolari. Questa patologia rappresenta il 60% di tutte le tachicardie sopraventricolari e colpisce prevalentemente il sesso femminile e i giovani adulti.

Gli episodi di tachicardia da rientro nodale vengono percepiti come accessi di batticuore molto rapido e regolare ad insorgenza e interruzione improvvisa. La durata degli episodi può variare da pochi secondi ad alcune ore e, salvo concomitanti patologie cardiache, vengono generalmente ben tollerati. Tra i sintomi più comuni sono inclusi palpitazioni, lipotimia, ansia, dolore toracico e dispnea. È possibile che si verifichi una sincope (svenimento comune) nei casi in cui l’aritmia si presenti a una frequenza ventricolare molto elevata.

Che cosa accade?

In condizioni normali il battito cardiaco generatosi nel nodo seno atriale (situato nell’atrio destro), si propaga negli atrii e raggiunge il nodo atrio-ventricolare, che è la sola via di comunicazione elettrica tra atri e ventricoli; da qui c’è il passaggio al fascio di His e al sistema di conduzione intraventricolare.

Nei pazienti con tachicardia da rientro nodale AV il nodo si comporta come se fosse formato da due vie di conduzione distinte: una a conduzione più rapida e l’altra a conduzione più lenta.

Gli episodi di tachicardia si verificano quando, in conseguenza di una extrasistole, l’impulso percorre in senso anterogrado la via lenta e trova la via rapida capace di condurre l’impulso in senso inverso, retrogrado, scatenando un “micro-corto circuito” all’interno del nodo atrioventricolare che provoca la contrazione contemporanea di atrio e ventricolo.

Diagnosi

Una precisa descrizione dei sintomi, ed in particolare delle circostanze e modalità di presentazione degli episodi di tachicardia, può indirizzare il cardiologo verso la diagnosi corretta.

L’elettrocardiogramma registrato durante l’episodio aritmico è diagnostico in quasi tutti i casi. La diagnosi di certezza del meccanismo della tachicardia si effettua attraverso lo studio elettrofisiologico endocavitario.

Trattamenti

L’urgenza nella necessità di un trattamento dell’aritmia verrà determinata dall’entità dei sintomi e dal contesto clinico: la risoluzione del singolo episodio può essere spontanea o conseguente a manovre o farmaci che agiscono sulle capacità conduttive delle vie nodali.

Solitamente si tentano prima di tutto delle manovre di stimolazione vagale: massaggio del seno carotideo, manovra di Valsalva.

Se le manovre non si dimostrano efficaci, verranno impiegati farmaci come l’adenosina o i calcio antagonisti.

Una volta risolto l’episodio acuto, si procede con la terapia attualmente riconosciuta come gold standard, lo studio elettrofisiologico con ablazione trans catetere. Durante lo studio elettrofisiologico, una volta confermata la presenza di doppia via nodale e fatta diagnosi di tachicardia da rientro nodale, si procede all’ablazione del circuito, in particolare all’ablazione della via nodale AV lenta.

Come si può prevenire?

Non esiste una strategia di prevenzione in quanto si tratta un’aritmia che dipende da specifiche caratteristiche elettriche intrinseche del nodo atrioventricolare. Quando si manifestano i sintomi e si fa la diagnosi, il paziente va indirizzato allo studio elettrofisiologico ed all’ablazione.

Deve essere segnalato il fatto che esiste una certa familiarità dell’aritmia, anche se non vi è una vera trasmissione genetica.

Tachicardie atriali

Tachicardie atriali

 

Con il termine tachicardie atriali si indicano i ritmi tachicardici (frequenza > 100 battiti/minuto) in cui l’impulso elettrico cardiaco non viene originato dal normale automatismo del nodo seno atriale, dove generalmente ha origine il battito cardiaco.

Generalmente l’origine delle tachicardie atriali è focale, ossia l’impulso elettrico si genera in uno specifico sito dell’atrio destro o sinistro da cui si diffonde in maniera centrifuga. Il loro meccanismo è determinato dall’attivazione di un gruppo di cellule da cui vengono emessi impulsi a frequenza cardiaca elevata, sostituendosi al centro fisiologico del battito che è il nodo seno atriale.

Come effettuare la diagnosi

Elettrocardiogramma

Trattamenti

Terapia farmacologica (sia betabloccante sia con altri farmaci antiaritmici)

Cardioversione elettrica esterna

Studio elettrofisiologico

Ablazione

Tromboflebite

Tromboflebite

 

Si definisce tromboflebite l’infiammazione di una o più vene collegata a un rigonfiamento provocato da un coagulo di sangue; colpisce più frequentemente le vene delle gambe.

Che cos’è la tromboflebite?

I rigonfiamenti correlati a coaguli di sangue interessano più di frequente le vene che scorrono nelle gambe, ma in alcune situazioni possono coinvolgere le braccia o il collo. Quando la vena affetta è in superficie si tratta di tromboflebite superficiale, mentre se si trova più vicino ai muscoli si parla di trombosi venosa profonda. Il rischio di formazione di emboli è incrementato dalla presenza di coaguli nelle vene più profonde; raramente, invece, una tromboflebite superficiale può determinare una serie complicazioni.

Da cosa può essere causata la tromboflebite?

Tra le cause della tromboflebite ci possono essere periodi di inattività prolungati, come un riposo forzato a letto, o molte ore in posizione seduta come può accadere durante un lungo viaggio in aereo. Chi soffre di disturbi che aumentano la probabilità di formazione di coaguli di sangue (in particolare di difetti nella coagulazione del sangue) e coloro che rimangono a lungo ricoverati in ospedale per un intervento chirurgico o una malattia importanti sono particolarmente soggetti al rischio di sviluppare questa patologia.

Con quali sintomi si manifesta la tromboflebite?

La tromboflebite si manifesta con gonfiori e dolore nella parte interessata, calore e indolenzimento lungo la vena coinvolta e a volte arrossamenti della cute.

Come si può prevenire la tromboflebite?

Per prevenire la formazione dei coaguli di sangue alla base della tromboflebite è essenziale mantenersi in attività.

È opportuno alzarsi ogni tanto durante i viaggi in aereo, così come è consigliabile fare delle soste e camminare un po’ quando si fanno dei lunghi viaggi in macchina.

Se si è obbligati a stare seduti a lungo si dovrebbe cercare di muovere spesso le gambe, anche premendo la pianta del piede sul pavimento, evitare di indossare capi d’abbigliamento che stringano la vita e bere molta acqua.

È utile utilizzare calze contenitive e seguire le indicazioni fornite dal proprio medico nei casi in cui si presenti il rischio di trombosi venosa profonda.

 

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