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Cardiopatia ischemica

Cardiopatia ischemica

La cardiopatia ischemica include tutte le condizioni in cui si verifica un insufficiente apporto di sangue e di ossigeno al muscolo cardiaco. La causa più frequente è l’aterosclerosi, caratterizzata dalla presenza di placche ad elevato contenuto di colesterolo (ateromi) nelle arterie coronarie, capaci di ostruire o ridurre il flusso di sangue. La cardiopatia ischemica presenta manifestazioni cliniche differenti quali l’angina pectoris (stabile e instabile) e l’infarto del miocardio.

Che cos’è la cardiopatia ischemica?

L’attività del cuore è caratterizzata da un equilibrio tra il fabbisogno di ossigeno del muscolo cardiaco e il flusso di sangue. Il cuore, infatti, è un organo che utilizza grandi quantità di ossigeno per il proprio metabolismo. In presenza di patologie o condizioni che alterano questo equilibrio si può generare una riduzione acuta o cronica, permanente o transitoria, dell’apporto di ossigeno (ipossia o anossia) e degli altri nutrienti, che può a sua volta danneggiare il muscolo cardiaco, riducendone la funzionalità (insufficienza cardiaca). L’ostruzione improvvisa delle coronarie può condurre all’infarto miocardico con un elevato rischio di arresto circolatorio e decesso. Va ricordato che la patologia aterosclerotica e la cardiopatia ischemica sono la principale causa di morte nel mondo Occidentale.

Quali sono le cause della cardiopatia ischemica?

Si distinguono cause di cardiopatia ischemica e fattori predisponenti, meglio noti come fattori di rischio cardiovascolare.

Le cause più frequenti di cardiopatia ischemica sono:

  • aterosclerosi, malattia che coinvolge le pareti dei vasi sanguigni attraverso la formazione di placche a contenuto lipidico o fibroso, che evolvono verso la progressiva riduzione del lume o verso l’ulcerazione e la formazione brusca di un coagulo sovrastante il punto di lesione. L’aterosclerosi delle arterie coronarie è la causa più frequente di angina e infarto miocardico.
  • spasmi coronarici, una condizione relativamente poco frequente che porta a una contrazione (spasmo) improvvisa e temporanea dei muscoli della parete dell’arteria, con riduzione o ostruzione del flusso di sangue.

I fattori di rischio cardiovascolare sono:

  • ipercolesterolemia o aumento dei livelli di colesterolo nel sangue, che innalza proporzionalmente il rischio di aterosclerosi.
  • ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa a una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze.
  • diabete, che unita a ipertensione e ipercolesterolemia compone la sindrome metabolica, un quadro ad alto rischio di ischemia cardiaca.
  • stress
  • vita sedentaria
  • obesità
  • fumo
  • predisposizione genetica.

Quali sono i sintomi della cardiopatia ischemica?

-dolore toracico (angina pectoris o dolore anginoso), con pressione e dolore al petto, che può irradiarsi al collo e alla mascella. Può manifestarsi anche al braccio sinistro oppure alla bocca dello stomaco, confondendosi talvolta con sintomi analoghi a una banale pesantezza addominale.

  • sudorazione
  • mancanza di respiro
  • svenimento
  • nausea e vomito.

Come prevenire la cardiopatia ischemica?

La prevenzione è l’arma più importante contro la cardiopatia ischemica. Si basa su uno stile di vita salutare, lo stesso che deve essere seguito da chi è stato colpito da problemi cardiaci. Prima di tutto è necessario evitare il fumo e seguire una dieta povera di grassi e ricca di frutta, verdura e cereali integrali. Bisognerebbe limitare o minimizzare le occasioni di stress psicofisico e privilegiare un’attività fisica aerobica regolare. Vanno poi corretti, ove possibile, tutti i fattori di rischio cardiovascolare.

Come diagnosticare la cardiopatia ischemica?

La diagnosi di cardiopatia ischemica richiede esami strumentali che includono:

  • elettrocardiogramma (ECG): registra l’attività elettrica del cuore e consente di individuare la presenza di anomalie suggestive per ischemia miocardica. L’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG: nel caso di sospetta angina consente di registrare l’elettrocardiogramma nella vita di tutti i giorni e soprattutto in quei contesti in cui il paziente riferisce di avere la sintomatologia.
  • il test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma mentre il paziente compie un esercizio fisico, generalmente camminando su un tapis roulant o pedalando su una cyclette. Il test viene condotto secondo protocolli predefiniti, volti a valutare al meglio la riserva funzionale del circolo coronarico. Viene interrotto alla comparsa di sintomi, alterazioni ECG o pressione elevata o una volta raggiunta l’attività massimale per quel paziente in assenza di segni e sintomi indicativi di ischemia.
  • scintigrafia miocardica: è una metodica utilizzata per valutare l’ischemia da sforzo in pazienti il cui solo elettrocardiogramma non sarebbe adeguatamente interpretabile. Anche in questo caso Il paziente può eseguire l’esame con cyclette o tapis roulant. Al monitoraggio elettrocardiografico viene affiancata la somministrazione endovenosa di un tracciante radioattivo che si localizza nel tessuto cardiaco se l’afflusso di sangue al cuore è regolare. Il tracciante radioattivo emana un segnale che può essere rilevato da un’apposita apparecchiatura, la Gamma-camera. Somministrando il radiotracciante in condizioni di riposo e all’apice dell’attività si valuta l’eventuale comparsa di mancanza di segnale in quest’ultima condizione, segno che il paziente manifesta un’ischemia da sforzo. L’esame consente non solo di diagnosticare la presenza di ischemia ma anche di fornire un’informazione più accurata sulla sua sede e sull’estensione. Lo stesso esame può essere effettuato producendo l’ipotetica ischemia con un farmaco ad hoc e non con l’esercizio fisico vero e proprio.
  • ecocardiogramma: è un test di immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio dispensa un fascio di ultrasuoni al torace, attraverso una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Le immagini in tempo reale possono essere raccolte anche durante l’esecuzione di un test da sforzo, fornendo in quel caso informazioni preziose sulla capacità del cuore di contrarsi correttamente in corso di attività fisica. Analogamente alla scintigrafia anche l’ecocardiogramma può essere registrato dopo aver somministrato al paziente un farmaco che può scatenare un’eventuale ischemia (ECO-stress), permettendone la diagnosi e la valutazione di estensione e sede.
  • coronografia o angiografia coronarica: è l’esame che consente di visualizzare le coronarie attraverso l’iniezione di mezzo di contrasto radiopaco al loro interno. L’esame viene effettuato in un’apposita sala radiologica, nella quale sono rispettate tutte le misure di sterilità necessarie. L’iniezione del contrasto nelle coronarie presuppone il cateterismo selettivo di un’arteria e l’avanzamento di un catetere fino all’origine dei vasi esplorati.
  • TAC cuore o tomografia computerizzata (TC): è un esame diagnostico per immagini atto a  valutare la presenza di calcificazioni dovute a placche aterosclerotiche nei vasi coronarici, indicatore indiretto di un rischio elevato di patologia coronarica maggiore. Con gli apparecchi attuali, somministrando anche mezzo di contrasto per via endovenosa, e’ possibile ricostruire il lume coronarico e ottenere informazioni su eventuali restringimenti critici.
  • risonanza Magnetica Nucleare (RMN): produce immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni attraverso la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte ad un intenso campo magnetico. Permette di valutare la morfologia delle strutture del cuore, la funzione cardiaca ed eventuali alterazioni del movimento di parete secondarie a ischemia indotta farmacologicamente (RMN cardiaca da stress).

Trattamenti

Il trattamento della cardiopatia ischemica è finalizzato a ripristinare il flusso di sangue diretto al muscolo cardiaco. Ciò si può ottenere con farmaci specifici oppure con un intervento di rivascolarizzazione coronarica.

Il trattamento farmacologico deve essere proposto dal cardiologo in collaborazione con il medico curante e può prevedere, a seconda del profilo di rischio del paziente o della gravità dei segni clinici:

  • nitrati (nitroglicerina): è una categoria di farmaci adoperata per favorire la vasodilatazione delle coronarie, permettendo così un aumento del flusso di sangue verso il cuore.
  • aspirina: studi scientifici hanno appurato che l’aspirina riduce la probabilità di infarto. L’azione antiaggregante di questo farmaco previene infatti la formazione di trombi. La stessa azione viene svolta anche da altri farmaci antipiastrinici (ticlopidina, clopidogrel, prasugrel e ticagrelor), che possono essere somministrati in alternativa o in associazione all’aspirina stessa, secondo le diverse condizioni cliniche.
  • beta-bloccanti: rallentano il battito cardiaco e abbassano la pressione sanguigna contribuendo in questo modo a ridurre il lavoro del cuore e quindi anche del suo fabbisogno di ossigeno.
  • atatine: farmaci per il controllo del colesterolo che ne limitano la produzione e l’accumulo sulle pareti delle arterie, rallentando lo sviluppo o la progressione dell’aterosclerosi.
  • calcio-antagonisti: hanno un’azione di vasodilatazione sulle coronarie che consente di aumentare il flusso di sangue verso il cuore.

In presenza di alcune forme di cardiopatia ischemica può rendersi necessaria la soluzione interventistica, che include diverse opzioni:

  • angioplastica coronarica percutanea, un intervento che prevede l’inserimento nel lume della coronaria, in corso di angiografia, di un piccolo pallone solitamente associato ad una struttura metallica a maglie (stent), che viene gonfiato ed espanso in corrispondenza del restringimento dell’arteria. Questa procedura migliora il flusso di sangue a valle, riducendo o eliminando i sintomi e l’ischemia.
  • bypass coronarico, un intervento chirurgico che prevede il confezionamento di condotti vascolari (di origine venosa o arteriosa) in grado di “bypassare” il punto di restringimento delle coronarie, facendo pertanto comunicare direttamente la porzione a monte con quella a valle della stenosi. L’intervento viene effettuato con diverse tecniche operatorie, con il paziente in anestesia generale e in molte circostanze con il supporto della circolazione extra-corporea.

Infarto del miocardio

Infarto del miocardio

 

L’infarto è la necrosi di un tessuto o di un organo che non ricevono un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa. Con il termine di infarto miocardico si intende la necrosi di una parte del muscolo cardiaco a seguito dell’ostruzione di una delle coronarie, arterie deputate alla sua irrorazione.

 

Come si manifesta?

L’infarto miocardico si può manifestare a riposo, dopo un’emozione intensa, durante uno sforzo fisico rilevante o quando lo sforzo è già terminato. Il suo esordio clinico è brusco ed è in prevalenza caratterizzato da sintomi tipici, che sono quindi facilmente identificabili nella maggior parte dei casi. E’ una malattia associata ad elevata mortalità se non adeguatamente trattata, che richiede l’attivazione del sistema di soccorso urgente sul territorio (118 o 112) e l’arrivo del paziente presso un ospedale dotato di tutte le potenzialità di trattamento della malattia, nel più breve tempo possibile. Le complicanze dell’infarto in fase acuta possono essere:

-lo shock, con grave prostrazione del paziente, bassa pressione arteriosa, tachicardia ed estremità fredde e umide a causa della vasta estensione dell’area di necrosi

-l’edema polmonare acuto, con grave mancanza di respiro a riposo

-le aritmie, alcune delle quali potenzialmente fatali

-l’ischemia di altri organi, per la scarsa capacità del cuore di svolgere la propria azione di pompa vitale per la circolazione del sangue.

 

Quali sono le cause dell’infarto del miocardio?

L’infarto miocardico è prodotto dall’occlusione parziale o totale di un’arteria coronarica. Questo avviene per la formazione di un coagulo (o trombo) su una delle lesioni aterosclerotiche che possono essere presenti sulla parete vascolare e che sono a stretto contatto con il lume interno. Non è ad oggi nota ne’ la causa dell’aterosclerosi ne’ della formazione improvvisa di un coagulo sulla placca coronarica: sono state avanzate diverse ipotesi tra le quali l’infiammazione dei vasi di varia natura e l’infezione da parte di germi molto diffusi nei paesi occidentali.

In rari casi l’infarto è la conseguenza di una malformazione coronarica (con restringimento del lume e formazione comunque di un trombo) o dello scollamento tra i foglietti della parete coronarica (dissezione) che porta quello interno a sporgere nel lume restringendolo in modo rilevante e predisponendolo alla chiusura totale (anche in questo caso per trombo o per compressione meccanica). Sono state descritte negli ultimi anni forme di infarto cardiaco che si manifestano in assenza di malattia coronarica e con un interessamento prevalente dell’apice del cuore.

La sindrome di Takotsubo è un infarto miocardico dell’apice che esordisce dopo un intenso stress emotivo e che colpisce prevalentemente le donne. E’ caratterizzata da una fase iniziale in cui la porzione di muscolo cardiaco che non si contrae può essere abbastanza estesa, coinvolgendo l’apice e i segmenti intermedi, con tendenziale buon recupero della contrattilità a distanza. Le coronarie sono indenni da restringimenti o da occlusioni. Il cuore, osservato all’ecocardiogramma, tende ad assumere un aspetto che ricorda il cestello utilizzato dai pescatori in Giappone, da cui il nome della sindrome che è stato proposto dai ricercatori giapponesi che l’hanno descritta per primi.

L’infarto resta anche oggi una malattia mortale. La mortalità è tanto maggiore quanto più tardivo è l’accesso del paziente con infarto miocardico acuto ad un ospedale nel quale possa essere trattato adeguatamente. E’ opportuno ricorrere al 118 in tutti i casi in cui si sospetti la presenza di un infarto cardiaco per iniziare al più presto il monitoraggio del paziente, trattare tempestivamente le complicanze fatali che possono verificarsi nelle prime ore (aritmie gravi come la fibrillazione ventricolare) e cominciare a somministrare i primi farmaci efficaci sul coagulo o trombo coronarico.

Quali sono i sintomi?

I sintomi più frequenti sono il dolore al petto, la sudorazione fredda profusa, uno stato di malessere profondo, la nausea e il vomito. Il dolore, definito anche precordiale (prossimo alla sede intratoracica del cuore) o retrosternale (il paziente lo attribuisce allo spazio toracico che sta dietro allo sterno) si può irradiare ai vasi del collo e alla gola, alla mandibola (soprattutto ramo sinistro), alla porzione di colonna vertebrale che sta fra le due scapole, agli arti superiori (il sinistro e’ coinvolto più spesso del destro) e allo stomaco.

Spesso il dolore al petto compare per brevi intervalli temporali e si risolve spontaneamente, prima di manifestarsi in modo più duraturo, con il corollario dei sintomi già descritto. Quando il dolore al petto, spontaneo o da sforzo, si manifesta per una durata massima di 30 minuti si parla di angina pectoris: una condizione di ischemia del cuore che non arriva ad essere così prolungata da provocare necrosi. Ci sono pazienti che lamentano l’angina pectoris da ore o giorni a mesi o anni prima di un vero e proprio infarto.

L’infarto miocardico è un’esperienza soggettiva: non tutte le persone che ne sono colpite descrivono la presenza degli stessi sintomi. Normalmente, un episodio acuto dura circa 30-40 minuti, ma l’intensità dei sintomi stessi può variare notevolmente. In alcuni casi il paziente riferisce di avvertire una sensazione di morte imminente, che lo porta a cercare il soccorso medico. Possono essere riportati anche stordimento e vertigini, mancanza di respiro in assenza di dolore toracico (soprattutto nei pazienti diabetici), svenimento con perdita di coscienza

Molte persone confondono l’infarto miocardico con l’arresto cardiaco. Sebbene l’infarto del miocardio possa causare l’arresto cardiaco, non ne è l’unica causa ed un infarto miocardico non determina necessariamente l’arresto cardiaco.

 

 

Quali sono i fattori di rischio?

I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono distinti in fattori modificabili e fattori non modificabili.

Fattori non modificabili:

-età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.

-sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più comuni negli uomini rispetto alle donne per le decadi dell’età’ giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto e’ analogo negli uomini e nelle donne.

-familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, soprattutto se la patologia cardiovascolare del congiunto si e’ manifestata in età giovanile

Fattori modificabili:

-stile di vita: sedentarietà e fumo di tabacco sono fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare. Smettere di fumare e condurre una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno, è il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute.

-alimentazione: Una dieta troppo ricca di calorie e grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Un’alimentazione sana ed equilibrata ha una grande valenza in termini di prevenzione delle malattie cardiovascolari.

-ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si traduce nel tempo con il progressivo malfunzionamento del cuore e con la comparsa di scompenso cardiocircolatorio

-diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue danneggia le arterie e favorisce l’aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta associata ad aumentato rischio cardiovascolare.

-droghe: l’uso di droghe può aumentare notevolmente la possibilità di infarto miocardico ed abbassare l’età media in cui si manifesta.

 

 

 

Diagnosi

L’infarto viene generalmente diagnosticato a partire dai sintomi riferiti dal paziente. Nel caso di sospetto infarto del miocardio, è possibile confermare l’ipotesi diagnostica mediante l’esecuzione di un elettrocardiogramma.

Attraverso gli esami del sangue, è possibile diagnosticare un infarto rilevando la presenza di alcune sostanze (gli enzimi cardiaci), che vengono rilasciate nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco che sono andate incontro a morte e permangono in circolo fino ad un paio di settimane dopo l’evento.

È possibile verificare la diagnosi di infarto del miocardio e valutare i danni causati dallo stesso attraverso un ecocardiogramma con Color Doppler. La malattia delle coronarie viene valutata mediante coronarografia con impiego del mezzo di contrasto. Dopo un infarto si può valutare indirettamente il grado di efficienza della circolazione coronarica e l’eventuale comparsa di ischemia mediante Elettrocardiogramma da sforzo, Ecocardiogramma da sforzo o da stress farmacologico, Scintigrafia miocardica da sforzo o da stress farmacologico e Risonanza Magnetica da stress farmacologico.

 

Trattamenti

Il primo obiettivo del trattamento dell’infarto miocardico, all’esordio della malattia, è quello di promuovere la riapertura della coronaria che si è occlusa. In questa fase il tempo risparmiato tra l’arrivo del paziente e la riapertura del vaso si traduce in un guadagno di muscolo cardiaco prima che venga danneggiato in modo irreversibile.

Il trattamento prevede la disostruzione del lume della coronaria mediante l’introduzione di un catetere dotato di palloncino gonfiabile all’apice, capace di passare attraverso il coagulo presente nel punto di massimo restringimento della coronaria stessa e di schiacciarne le componenti sulle pareti (angioplastica coronarica), e il posizionamento di una protesi a rete all’interno del vaso (stent) che contribuisce a mantenerlo aperto dopo la disostruzione.

In mancanza di angioplastica o della possibilità di raggiungere le coronarie con il catetere esistono anche farmaci che sono in grado di dissolvere il trombo dopo essere stati somministrati per via endovenosa (trombolitici) benché’ non utilizzabili in tutti i pazienti, in quanto associati alla possibilità di produrre emorragie anche gravi.

Altri farmaci, tra cui gli anticoagulanti, gli antiaggreganti, i betabloccanti, gli ACE inibitori e le statine, sono quasi sempre presenti nel corredo farmacologico del paziente colpito da infarto miocardico. Il loro uso va valutato in base al profilo di rischio emorragico del paziente, alla tolleranza individuale e alle controindicazioni che variano da soggetto a soggetto.

In tutti i casi in cui si sia rilevata una malattia coronarica grave o estesa e che non siano trattabili con l’angioplastica coronarica e lo stent si può ricorrere all’intervento di bypass coronarico che consiste nel creare chirurgicamente un canale di comunicazione fra l’aorta e la coronaria ristretta o ostruita a valle della lesione, mediante l’utilizzo di altre arterie (arteria mammaria interna) o vene (safena rimossa dagli arti inferiori). Normalmente, questo tipo di approccio non viene utilizzato in emergenza a meno che non vi sia assoluta necessità.

 

Prevenzione

La terapia prescritta alla dimissione prevede sempre l’Aspirina spesso associata ad un altro antiaggregante, che andrà mantenuto per un tempo variabile da un mese ad un anno, il betabloccante, l’ace-inibitore e la statina. Intolleranze individuali o la controindicazione assoluta ad uno di questi preparati può’ essere la causa della loro mancata prescrizione.

Questa terapia e’ spesso affiancata da altri preparati, secondo le caratteristiche individuali dei soggetti e le malattie associate. Lo scopo della terapia e’ quello di rallentare la progressione dell’aterosclerosi e di prevenire un secondo episodio infartuale, le sue temibili complicanze come la morte o l’ictus, e ridurre l’evoluzione verso un malfunzionamento del cuore e della circolazione (scompenso).

Ancora una volta la modificazione dello stile di vita può contribuire enormemente alla prevenzione.

Viene pertanto raccomandato di:

-ridurre il proprio peso corporeo fino al raggiungimento di un valore nella norma per età e sesso. La valutazione del peso corporeo viene fatta non solo in assoluto ma soprattutto come indice di massa corporea o BMI, unità di volume nella quale si tiene conto di peso e altezza, i cui valori normali sono stati condivisi dalla comunità scientifica internazionale.

-smettere di fumare, facendosi aiutare anche da centri specializzati ad assistere pazienti che non sono in grado di sostenere questa decisione da soli.

-praticare attività fisica regolarmente, con intensità variabile a seconda di età e condizioni generali di salute. È a questo proposito importante discutere con il proprio medico in merito ad un programma di allenamento adatto alle proprie caratteristiche.

-evitare cibi grassi, eccessivamente conditi o fritti. Non eccedere con alcool (un bicchiere di vino al pasto al giorno) e dolci. Privilegiare i grassi vegetali e i pasti a base di verdure, fibre, carni magre e pesce.

-limitare, per quanto possibile, le situazioni che possono essere fonte di stress, specialmente se queste tendono a protrarsi nel tempo.

 

 

Quali tecniche si usano per la riabilitazione?

Dopo un infarto miocardico può essere indicato un periodo di riabilitazione cardiologica. La stessa può essere fatta in regime di degenza o ambulatorialmente, secondo la gravità dell’infarto stesso, la capacità di recuperare la propria attività fisica da parte del paziente e le eventuali malattie extracardiache associate.

Le principali finalità della riabilitazione sono quelle di una graduale ripresa della capacità di esercizio individuale, di un assestamento della terapia che si avvicini il più possibile a quanto sarà assunto dal paziente nella vita extra-ospedaliera e, infine, di modificazione dello stile di vita.

Per le diverse modalità di esecuzione della riabilitazione e relativi programmi si rimanda alla sezione specifica.

Aneurismi dell’aorta addominale

Aneurismi dell’aorta addominale

 

Che cosa è un aneurisma?

Il termine aneurisma indica una dilatazione localizzata e permanente di un’arteria causata dal danneggiamento delle fibre elastiche e muscolari presenti nella parete. Privo così della sua solita elasticità e sotto la spinta della pressione del sangue, il vaso si allarga progressivamente. L’evoluzione naturale dell’aneurisma comporta un progressivo aumento di calibro del tratto di arteria interessato fino all’inevitabile rottura del vaso. I fattori di rischio che possono partecipare alla formazione dell’aneurisma sono ipertensione, familiarità, livelli elevati di colesterolo, diabete e fumo. Una malattia molto diffusa è l’aneurisma dell’aorta, che interessa il 6% circa della popolazione di età superiore a 60 anni, e colpisce più frequentemente gli uomini. Gli aneurismi più diffusi colpiscono l’aorta addominale sottorenale, allargandosi talvolta alle arterie iliache, cioè ai due rami principali di divisione dell’aorta diretti agli arti inferiori.

 

Sintomi dell’aneurisma

Il più delle volte l’aneurisma dell’aorta addominale è totalmente asintomatico, ossia non ci sono segni che possano avvertire della sua presenza. Molto spesso, infatti, viene diagnosticato in occasione di esami o visite eseguiti per altre ragioni. A volte è possibile avvertire un dolore al dorso ed alla regione lombare, a causa della compressione effettuata dall’aneurisma sui corpi vertebrali e sulle radici nervose. Sintomi molto diversi si presentano invece in caso di rottura dell’aneurisma: l’emorragia provoca dolori addominali o dorsali con anemia e calo importante dei valori di pressione arteriosa. In presenza di questi gravi disturbi è necessario il ricovero in ospedale immediato per il trattamento.

Come viene effettuata la diagnosi

Palpazione dell’addome

Ecografia addominale o l’ecocolordoppler

Tomografia assiale computerizzata (TAC)

Angio-risonanza magnetica (angio-RNM)

Per i soggetti che presentano fattori di rischio (ipertensione, familiarità, fumo, valori elevati di colesterolo, storia personale di malattia di cuore o delle arterie degli arti inferiori e delle carotidi, diabete, malattie croniche polmonari) è importante eseguire periodicamente un esame ecografico o ecocolordoppler con studio dei diametri dell’aorta. Il medico specialista suggerirà eventualmente il tipo di esami per approfondimento, valutandone anche la necessità.

Trattamenti

Aneurismectomia tradizionale

Aneurismectomia con tecnica endovascolare

È necessario che la scelta tra le due diverse modalità di trattamento venga effettuata solo dopo aver attentamente valutato i dati relativi alle condizioni generali, con particolare riferimento a malattie di cuore, polmoni e reni, e le dimensioni e morfologia della dilatazione aneurismatica.

Cardiomiopatia ipertrofica

Cardiomiopatia ipertrofica

 

La cardiomiopatia ipertrofica è una condizione in cui il muscolo cardiaco diventa più spesso ed ipertrofico, in mancanza di dilatazione dei ventricoli.

Che cos’è la cardiomiopatia ipertrofica?

La cardiomiopatia ipertrofica può interessare uomini e donne in egual misura. Spesso non può neanche essere diagnosticata a causa dell’assenza di sintomi e in molti casi è possibile comunque condurre una vita normale. È possibile che si manifesti con: aritmie (che possono comportare una morte improvvisa), sintomi da ostruzione all’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro (come vertigini e svenimenti), da scompenso cardiaco e da ischemia miocardica. Nelle cardiomiopatie ipertrofiche il ventricolo sinistro diventa meno elastico, per cui risulta avere una capacità ridotta di accogliere il sangue che proviene dai polmoni. La conseguenza è una riduzione della quantità di sangue pompata dal cuore (insufficienza cardiaca “diastolica” o “con conservata frazione di eiezione”): ciò determina i sintomi da scompenso cardiaco. È presente poi una disfunzione microvascolare che comporta ischemia miocardica, da cui possono derivare microinfarti; a ciò si possono forse attribuire i dolori al petto che spesso compaiono in questa patologia. La cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva si ha quando il setto che separa i due ventricoli diventa così spesso da ostruire l’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro; ciò viene correlato a distorsione dell’apparato valvolare mitralico, che provoca incontinenza della valvola. In circa il 3% dei pazienti la cardiomiopatia ipertrofica si sviluppa in una forma dilatativa con scompenso cardiaco refrattario e prognosi infausta.

Da cosa può essere causata la cardiomiopatia ipertrofica?

In genere alla base della cardiomiopatia ipertrofica c’è una mutazione genetica, che comporta non solo l’ipertrofia miocardica, ma anche una disposizione anomala delle fibre muscolari cardiache.

Con quali sintomi si manifesta la cardiomiopatia ipertrofica?

Quando presenti, i sintomi della cardiomiopatia ipertrofica possono essere fiato corto, dolore al petto e svenimenti (soprattutto durante l’attività fisica o in caso di sforzi), vertigini, affaticamento e palpitazioni.

Come prevenire la cardiomiopatia ipertrofica?

Essendo una malattia ereditaria, non esistono metodi per prevenire la cardiomiopatia ipertrofica. Esiste un 50% di rischio che il figlio di un individuo affetto dal problema erediti la mutazione genetica alla sua base.

Diagnosi

Il medico può avere il sospetto della presenza di una cardiomiopatia ipertrofica se rileva un soffio al cuore nel corso di una visita medica.

Per avere ulteriore conferma della diagnosi si possono prescrivere le seguenti analisi:

Ecocardiogramma: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Rappresenta l’esame cardine: consente la valutazione dell’aumento di spessore delle pareti ventricolari e l’individuazione dell’eventuale ostruzione all’efflusso dal ventricolo sinistro provocata da un’eccesiva ipertrofia del setto interventricolare, nonché l’insufficienza mitralica che è correlata all’ostruzione; può evidenziare segni di disfunzione diastolica.

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Possono essere mostrate molteplici alterazioni, tra cui, in particolare, segni di ipertrofia ventricolare sinistra.

ECG dinamico secondo Holter: L’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG. Può segnalare aritmie.

Cateterismo cardiaco: metodologia invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione di informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue, e sulla pressione all’interno delle camere cardiache e delle arterie e delle vene polmonari. Viene effettuato di rado; documenta un aumento delle pressioni di riempimento del ventricolo sinistro, diretta conseguenza della sua ridotta elasticità, e può segnalare, nelle forme più avanzate, ipertensione polmonare.

Risonanza magnetica (RM) cardiaca con mezzo di contrasto: vengono prodotte immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni tramite la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte ad un intenso campo magnetico. Consente la valutazione accurata dell’aumento di spessore delle pareti ventricolari e l’identificazione delle cicatrici (aree di “fibrosi”), conseguenza dei microinfarti.

Indagini genetiche: si effettuano analizzando il DNA dei globuli bianchi che sono presenti in un campione di sangue ottenuto tramite un normale prelievo venoso. Si può effettuare la ricerca delle mutazioni genetiche associate allo sviluppo di cardiomiopatia ipertrofica; nel caso venga identificata una mutazione correlata allo sviluppo di cardiomiopatia ipertrofica, sarà poi possibile studiare i familiari “sani”: potranno essere rassicurati sul fatto che non svilupperanno la patologia gli individui per cui la ricerca della mutazione risulterà negativa.

Trattamenti

Il trattamento della cardiomiopatia ipertrofica ha come obiettivi il miglioramento dei sintomi e, nei pazienti ad alto rischio, la prevenzione della morte cardiaca improvvisa.

I possibili approcci terapeutici includono:

L’assunzione di farmaci che migliorano il “rilassamento” del muscolo cardiaco e rallentano i battiti, come i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti e alcuni antiaritmici.

L’intervento chirurgico per eliminare l’ostruzione all’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro determinato dall’ispessimento del setto che separa i due ventricoli.

L’alcolizzazione del setto interventricolare per eliminare l’ostruzione all’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro determinato dall’ispessimento del setto nei casi in cui non sia possibile l’intervento chirurgico; questa procedura prevede l’iniezione di alcool in un ramo delle coronarie che irrora la porzione di setto responsabile dell’ostruzione.

L’impianto di un defibrillatore automatico (ICD) nei pazienti ad alto rischio di morte cardiaca improvvisa.

In presenza di sintomi di scompenso cardiaco: diuretici, anti-aldosteronici.

In caso di scompenso cardiaco refrattario: trapianto cardiaco.

 

Cardiomiopatia restrittiva

Cardiomiopatia restrittiva

 

La cardiomiopatia restrittiva è una condizione caratterizzata dall’aumento della rigidità delle pareti ventricolari, per cui il cuore non riesce a riempirsi adeguatamente (vi è cioè una “disfunzione diastolica”): la conseguenza è una diminuzione della quantità di sangue pompata (insufficienza cardiaca “diastolica” o “con conservata frazione di eiezione”). Nelle fasi iniziali la capacità del cuore di contrarsi (funzione sistolica) può risultare normale, ma con il progredire della patologia in genere si registra un deterioramento anche della funzione sistolica.

Che cos’è la cardiomiopatia restrittiva?

La cardiomiopatia restrittiva si manifesta spesso con un’insufficienza cardiaca rapidamente progressiva refrattaria alla terapia, specialmente in caso di amiloidosi. Solitamente il cuore ha delle dimensioni normali o solo leggermente aumentate. Purtroppo la prognosi, che è strettamente collegata alla causa alla base della cardiomiopatia, si rivela spesso sfavorevole e la sopravvivenza media dopo la diagnosi è di 9 anni.

Da cosa può essere causata la cardiomiopatia restrittiva?

Per circa il 50% dei casi la cardiomiopatia restrittiva risulta derivare da patologie specifiche, mentre nel resto dei casi è di natura idiopatica. È l’infiltrazione determinata dall’amiloidosi la causa più comune di cardiomiopatia restrittiva. Ma le cause possono anche essere l’interessamento cardiaco da sindrome da carcinoide, la fibrosi endomiocardica, la sindrome di Loeffler, la sindrome ipereosinofila, l’emocromatosi, la radioterapia e la chemioterapia con antracicline, la sclerodermia, la sarcoidosi, le malattie da accumulo. È possibile, inoltre, che la cardiomiopatia restrittiva compaia dopo un trapianto di cuore.

Con quali sintomi si manifesta la cardiomiopatia restrittiva?

Il quadro clinico della cardiomiopatia restrittiva è caratterizzato prevalentemente dalle manifestazioni dello scompenso cardiaco. Solitamente la comparsa dei sintomi è lenta, ma in alcuni casi possono presentarsi anche improvvisamente apparendo gravi fin dai primi momenti. I più diffusi sono tosse, difficoltà respiratorie e fiato corto (durante l’attività fisica o da sdraiati di notte), stanchezza e scarsa resistenza all’esercizio fisico, inappetenza, gonfiore addominale, dei piedi e delle caviglie e battiti cardiaci rapidi o irregolari. A questi disturbi si possono associare dolori al petto, perdita di concentrazione, riduzione della quantità di urina prodotta e, negli adulti, bisogno di urinare anche di notte.

Come prevenire la cardiomiopatia restrittiva?

Per gran parte delle situazioni non è possibile fare molto per prevenire la cardiomiopatia restrittiva. Talvolta il trattamento precoce della sarcoidosi e dell’emocromatosi, così come delle malattie da accumulo può evitarne l’insorgenza.

Diagnosi

Il medico può avere un sospetto di una cardiomiopatia restrittiva se durante una visita rileva turgore delle vene del collo o ingrossamento del fegato, rumori polmonari e cardiaci anomali, accumulo di fluidi nelle zone declivi, e il paziente manifesta sintomi da scompenso cardiaco.

Per una conferma della diagnosi si possono prescrivere alcune analisi come:

Analisi del sangue: che possono evidenziare ipereosinofilia (ossia importante aumento dei leucociti eosinofili), in caso di sindrome ipereosinofila o sindrome di Loeffler; ferritina assai alta, sideremia e percentuale di saturazione della transferrina elevate nell’emocromatosi; componenti monoclonali, in caso di amiloidosi; deficit di enzimi specifici nelle malattie da accumulo; elevazione del BNP (brain natriuretic peptide).

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Può mostrare molteplici alterazioni, tra cui bassi voltaggi nell’amiloidosi, e aritmie, come la fibrillazione atriale.

Ecocardiogramma: è un test basato su un’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Mostra segni di disfunzione diastolica, dilatazione degli atri e, non di rado, aumento degli spessori parietali associato ad alterata ecogenicità in caso di patologie infiltrative.

Cateterismo cardiaco: metodologia invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione di informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue. Le pressioni di riempimento sono elevate e la portata cardiaca (la quantità di sangue pompata dal cuore) è ridotta.

Biopsia endomiocardica: viene svolta mentre si esegue il cateterismo cardiaco tramite l’utilizzo di uno strumento chiamato biotomo. Di solito le biopsie vengono effettuate sul lato destro del setto interventricolare. Risulta utile per escludere patologie infiltrative come l’amiloidosi o infiammatorie come la sarcoidosi.

Risonanza magnetica (RM) cardiaca con mezzo di contrasto: vengono prodotte immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni tramite la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Grazie alla sua capacità di dare informazioni sulla struttura del miocardio, rende possibile a volte individuare la causa della cardiomiopatia restrittiva, come nel caso dell’amiloidosi, dell’emocromatosi o della sarcoidosi.

RX torace (radiografia del torace): può rendere possibile l’individuazione della presenza di congestione polmonare (accumulo di liquidi nei polmoni); nel caso di sarcoidosi, può documentare ingrandimento bilaterale dei linfonodi localizzati a livello dell’ilo polmonare.

Trattamenti

Quando si è in grado di individuare la causa della cardiomiopatia restrittiva, il suo trattamento può consentire di controllare la malattia. Purtroppo, però, i trattamenti davvero efficaci sono pochi. Gli obiettivi principali sono il controllo dei sintomi e il miglioramento della qualità di vita del paziente. Per raggiungere tali obiettivi possono essere prescritti:

diuretici, in caso di accumulo di liquidi

farmaci per controllare eventuali irregolarità del battito cardiaco

farmaci anticoagulanti

 

 

Displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C)

Displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C)

 

Che cos’è e come si manifesta?

La displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C) è una patologia che colpisce il muscolo cardiaco (soprattutto a carico del ventricolo destro) caratterizzata da anomalie funzionali e strutturali dovute alla sostituzione del miocardio (il normale tessuto muscolare cardiaco) con tessuto adiposo o fibro-adiposo. Alla base della patologia si trovano diverse anomalie genetiche che causano alterazioni dell’organizzazione dell’assetto cellulare cardiaco che porta alle suddette modificazioni anatomiche.

Dal punto di vista clinico si verificano manifestazioni di tipo aritmico e disfunzionale con carattere progressivo. Questo carattere progressivo della patologia ha come conseguenza il fatto che i pazienti spesso presentano sintomi eterogenei. I più comuni sono palpitazioni, dispnea e sincope.

Nel 30-50% dei casi ha una distribuzione familiare, con trasmissione sia autosomica dominante che recessiva.

Considerando la presentazione clinica eterogenea e la distribuzione segmentale della sostituzione adiposa che rende le indagini bioptiche poco sensibili, risulta difficile stimare in modo accurato la prevalenza di questa condizione.

Le alterazioni tissutali si concentrano prevalentemente nell’area compresa tra il tratto di efflusso del ventricolo destro, l’apice e l’anello tricuspidalico (il cosiddetto triangolo della displasia).

Come effettuare le diagnosi

Sono stati formulati criteri diagnostici che comprendono:

Elementi di storia familiare

ECGgrafici, aritmici, strutturali e istologici

Holter ECG

Ecocardiogramma

Risonanza magnetica nucleare cardiaca

Si può proporre uno studio elettrofisiologico (SEF) per la valutazione della suscettibilità aritmica ventricolare: è possibile determinare quale sia il tipo di aritmia inducibile, la morfologia e se essa sia o no tollerata emodinamicamente. È inoltre utile per la distinzione tra le aritmie idiopatiche del ventricolo destro, con decorso benigno, e la ARVD/C.

Trattamenti

La terapia della ARVD/C  ha come obiettivo innanzitutto la protezione dal rischio aritmico.

Sarà necessario cambiare lo stile di vita, per cui verranno escluse attività fisiche rilevanti, ed effettuare un’attenta valutazione della terapia farmacologica. Quest’ultima include betabloccanti, amiodarone, sotalolo.

È utile effettuare uno studio elettrofisiologico con ablazione transcatetere in caso di aritmie non controllabili con il trattamento medico, tachicardie ventricolari monomorfe con origine ben localizzabile, e per limitare gli eventuali interventi di un defibrillatore impiantato.

In relazione all’impianto di un defibrillatore non esiste un’univoca stratificazione del rischio. Viene proposto a pazienti “sopravvissuti” a un arresto cardiaco, o con aritmie refrattarie al trattamento medico, specialmente se giovani, e in caso di coinvolgimento di entrambi i ventricoli.

Come prevenire

La malattia riconosce un’eziologia genetica e pertanto non può essere prevenuta. Una volta effettuata la diagnosi, il corretto procedimento prevede un’adeguata stratificazione del rischio (in base a criteri anatomici, elettrocardiografici e clinici) al fine di decidere la migliore strategia terapeutica.

Endocardite infettiva

Endocardite infettiva

 

L’endocardite è un’infiammazione del rivestimento interno del cuore (endocardio). In genere l’endocardite viene provocata da un’infezione, solitamente batterica, ma può essere anche di natura non infettiva, per esempio di origine reumatica. Se non viene curata, si può avere un grave danno ai tessuti del cuore e alle valvole cardiache.

Che cos’è l’endocardite infettiva?

L’endocardite è un processo infiammatorio che colpisce l’endocardio, il sottile rivestimento delle pareti interne delle cavità cardiache. L’infiammazione può coinvolgere le pareti degli atri e dei ventricoli, per cui in questo caso parliamo di endocardite parietale, oppure, molto più frequentemente le valvole, per cui si parla di endocardite valvolare.

L’endocardite può essere la causa di alterazioni permanenti delle strutture valvolari, provocandone il restringimento (stenosi) o l’incontinenza (insufficienza) o entrambe. Colpisce più frequentemente i soggetti che hanno un difetto congenito e può colpire anche protesi, come valvole cardiache artificiali, soprattutto nel primo anno dopo l’impianto.

Da cosa può essere causata l’endocardite infettiva?

Diverse cause possono determinare l’endocardite. L’endocardite reumatica è provocata dal processo infiammatorio dovuto alla malattia reumatica (una sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche). Questo porta alla formazione di noduli che coinvolgono principalmente la valvola mitrale e aortica.

Si ha endocardite infettiva nelle situazioni in cui i microrganismi che provengono da altre parti del corpo, come bocca, tonsille, intestino, pelle, vie urinarie, si inseriscono nel torrente ematico ed arrivano al cuore. Più comunemente viene provocata da batteri – si parla di endocardite batterica – che, in presenza di deficit del sistema immunitario o di difetti congeniti, possono insediarsi nell’endocardio e originare lesioni che vengono chiamate “vegetazioni”: si tratta infatti di escrescenze formate da materiale fibrinoso dentro cui si annidano i batteri. Dalle vegetazioni possono staccarsi frammenti che attraverso il torrente ematico possono raggiungere altri distretti, disseminando l’infezione.

Fra altri possibili fattori di rischio per l’endocardite infettiva troviamo le parodontopatie, le malattie a trasmissione sessuale, cateteri vascolari infetti, l’uso di siringhe non sterili e infette, tatuaggi e piercing praticati con attrezzature non sterili.

Con quali sintomi si manifesta l’endocardite infettiva?

L’endocardite può essere caratterizzata da un decorso lento oppure da un esordio acuto. I sintomi variano a seconda delle cause e delle forme.

L’alterazione della funzionalità delle valvole cardiache può comportare:

soffi cardiaci, determinati dalle alterazioni del flusso sanguigno

disturbi del ritmo cardiaco

Nelle endocarditi batteriche i sintomi sono più evidenti e a rapida evoluzione a causa del danneggiamento delle valvole cardiache con possibile ulcerazione e perforazione. Essi includono:

Febbre

Brividi

Stanchezza

Mal di testa

Dolore alle articolazioni e ai muscoli

Sudorazione notturna

Mancanza di respiro

Pallore

Tosse persistente

Gonfiore a piedi, gambe e addome (edema)

Perdita di peso

Sangue nelle urine

Dolorabilità e ingrossamento della milza (splenomegalia)

Noduli di Osler, piccoli rilievi dolenti, di colore rosso, sulla punta delle dita delle mani o dei piedi.

Macchie di colore violastro o rosso (petecchie) sulla pelle, negli occhi o dentro la bocca.

Come si può prevenire l’endocardite infettiva?

Per i pazienti a rischio (portatori di protesi valvolari, cardiopatie congenite, con endocardite pregressa), prima di effettuare delle manovre odontoiatriche che richiedono la manipolazione del tessuto gengivale o che prevedono la perforazione della mucosa orale, è consigliata la profilassi antibiotica, che rappresenta uno scudo contro l’infezione.

Per i pazienti a rischio è consigliabile porre particolare attenzione all’igiene orale, usando regolarmente spazzolini, filo interdentale e collutori.

Si dovrebbero inoltre evitare piercing e tatuaggi o nel caso bisognerebbe affidarsi a operatori che rispettano rigide misure igieniche (attrezzature e ambienti sterili). Nel caso di ferite o di infezioni della pelle è necessario consultare il medico per concordare un’eventuale terapia antibiotica.

È anche consigliabile sottoporsi a vaccinazione antinfluenzale, per evitare le possibili complicazioni dell’influenza, che possono facilitare lo sviluppo di un’endocardite infettiva.

Diagnosi

Il medico può avere il sospetto di un’endocardite in seguito al riscontro, all’auscultazione cardiaca, di un soffio di nuova comparsa. Il soffio cardiaco è un rumore determinato dalla turbolenza del flusso sanguigno dovuta alle alterazioni strutturali delle valvole. Successivamente, il medico può utilizzare altri strumenti per approfondire le indagini. Può prescrivere:

Esami del sangue, per la ricerca di batteri attraverso esame colturale del sangue (emocoltura) o per l’evidenziazione di un aumento degli indici infiammatori (tipicamente velocità di eritrosedimentazione, VES, e proteina C reattiva, PCR) o di uno stato di anemia (riduzione dei valori di emoglobina), alterazioni che sono di solito presenti in caso di endocardite.

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Rende possibile l’individuazione della presenza di vegetazioni e dell’eventuale malfunzionamento delle valvole cardiache.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso la sonda si introduce dalla bocca e si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente una migliore visualizzazione delle valvole e delle strutture paravalvolari.

Elettrocardiogramma: registra l’attività elettrica del cuore e permette di individuare, tra le altre cose, disturbi del ritmo cardiaco.

Radiografia del torace (RX torace): può dare diverse informazioni, ad esempio può rivelare se il cuore è ingrossato, segno indicativo di insufficienza cardiaca, o se l’infezione si è estesa ai polmoni.

Risonanza magnetica cardiaca (RM) con mezzo di contrasto: produce immagini dettagliate utilizzando la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Permette la visualizzazione molto accurata del cuore e delle strutture limitrofe e fornisce informazioni preziose per la terapia.

Trattamenti

L’endocardite batterica viene curata con una terapia antibiotica mirata. Il trattamento dura diverse settimane.

Se l’endocardite ha provocato danni alle valvole cardiache, può essere necessario intervenire chirurgicamente per “riparare” i danni causati dall’infezione oppure, quando ciò non è possibile, per sostituire la valvola.

 

 

Fenomeno di Raynaud

Fenomeno di Raynaud

 

Il Fenomeno di Raynaud è caratterizzato da un eccessivo raffreddamento e cambiamento di colore di alcune aree del corpo – solitamente le dita, la punta del naso e le orecchie – in presenza di basse temperature o in condizioni di stress emotivo.

Che cos’è il Fenomeno di Raynaud?

Il Fenomeno di Raynaud è rappresentato dall’eccessivo e anomalo restringimento dei vasi sanguigni (vasospasmo) in presenza di stimoli scatenanti (sbalzi di temperatura, emozioni intense), che alterano il flusso sanguigno nelle zone periferiche del nostro organismo, quali le dita. Nei casi più gravi, la riduzione della circolazione a livello delle dita può diventare cronica e comportare la formazione di ulcere.

Da cosa può essere causato il Fenomeno di Raynaud?

Alla base del Fenomeno di Raynaud sembra ci sia l’eccessiva reattività dei vasi sanguigni alle temperature e allo stress, che comporta una riduzione del flusso di sangue alle estremità del corpo per limitare la dispersione di calore. In realtà sono due le forme di questa condizione. La più diffusa è la forma primaria, la cui causa è ignota e non è correlata a nessuna malattia sistemica che possa provocare il restringimento dei vasi sanguigni; la forma secondaria è invece correlata a una condizione medica sottostante (per es. la sclerodermia, la connettivite mista, la poli/dermatomiosite) e fattori predisponenti noti tra cui per es. l’utilizzo di strumenti lavorativi freddi o vibranti, il fumo, traumi alle mani o ai polsi, l’assunzione di alcuni farmaci (ad esempio i beta bloccanti), l’esposizione a cloruro di vinile e disturbi della tiroide.

Con quali sintomi si manifesta il Fenomeno di Raynaud?

Il Fenomeno di Raynaud si può facilmente riconoscere in base a un tipico cambiamento di colore che avviene in tre fasi: le dita diventano prima bianche per lo spasmo dei vasi sanguigni, poi blu nel momento in cui si ripristina la circolazione venosa, e infine rosse quando anche il sangue arterioso torna a circolare. La frequenza, durata e gravità dello spasmo dei vasi sanguigni sono variabili, e si verificano in genere anche intorpidimento e alterazione della sensibilità tattile.

Come si può prevenire il Fenomeno di Raynaud?

Il rischio di comparsa di episodi di Fenomeno di Raynaud può essere ridotto con un’adeguata protezione dal freddo, per esempio optando per un abbigliamento adatto durante l’inverno, coprendosi bene anche quando si sta negli ambienti domestici con aria condizionata, utilizzando dei guanti per armeggiare nel frigorifero o nel congelatore. Si consiglia inoltre di sospendere i fattori scatenanti quali il fumo, i farmaci (in particolare beta bloccanti e pillola anti-concezionale), l’utilizzo di strumenti vibranti quali il trapano, mantenere un’attività fisica adeguata.

Diagnosi

Per distinguere la forma primaria da quella secondaria di Fenomeno di Raynaud il medico ha la necessità di raccogliere informazioni cliniche complete al momento della visita, e può sottoporre il paziente a un esame detto capillaroscopia periungueale: eseguito appunto a livello della base delle unghie delle mani, questo esame consente l’analisi dei vasi sanguigni per valutarne lo stato di salute.

Nelle situazioni in cui c’è il sospetto di una forma secondaria, possono essere prescritti altri esami, variabili in base alla patologia di cui si vuole verificare la presenza, e nel sospetto di una malattia autoimmune correlata al Fenomeno di Raynaud si possono per esempio richiedere ANA ed anti-ENA.

Trattamenti

Il trattamento del Fenomeno di Raynaud viene stabilito in base alla sua gravità e all’eventuale presenza di patologie sottostanti. In molti casi, più che di una disabilità si tratta di un semplice disturbo fastidioso, per cui se i sintomi sono lievi può essere sufficiente coprire le estremità in modo adeguato ed evitare gli sbalzi di temperatura. Bisogna inoltre eliminare i fattori predisponenti, se possibile, per esempio cambiando mansioni lavorative se il paziente è esposto a basse temperature o all’utilizzo di strumenti vibranti, sospendendo l’abitudine del fumo ed eliminando eventuali farmaci che possono causare il Fenomeno di Raynaud.

In casi più complicati è possibile assumere farmaci per ridurre il numero di attacchi, prevenire il danno ai tessuti e trattare eventuali patologie sottostanti.

Tra i farmaci che possono essere utilizzati per promuovere la buona circolazione possono essere prescritti:

calcio-antagonisti

alfa-bloccanti

vasodilatatori

A volte è possibile che sia necessario effettuare altri trattamenti più invasivi come interventi chirurgici ai nervi (es. sindrome del tunnel carpale) se considerati fattore scatenante, e in caso di comparsa di ulcere sarà necessario iniziare infusioni di vasodilatatori e medicazioni accurate.

Infarto

Infarto

 

Che cos’è l’infarto?

Con il termine infarto si indica la morte o necrosi di un tessuto o di un organo che non riescono ad avere un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa a loro dedicata. Quando un vaso arterioso non ha un buon flusso, o non è capace di aumentarlo a seconda delle esigenze del territorio che irrora, si manifesta l’ischemia dei tessuti a valle del vaso o l’infarto stesso, nel caso in cui l’ischemia venga sufficientemente prolungata da provocare necrosi.

Quali sono le caratteristiche dell’infarto?

È possibile che l’infarto si manifesti in molti distretti dell’organismo umano; tuttavia con questo termine si indica più comunemente l’infarto cardiaco, che colpisce il tessuto muscolare del cuore o miocardio, e l’infarto cerebrale, noto comunemente come ictus ischemico. Insieme, l’infarto cardiaco e cerebrale rappresentano anche la più comune causa di morte dei paesi sviluppati. Se l’evento non ha avuto un esito fatale, la necrosi del tessuto colpito da infarto viene riparata attraverso un processo di cicatrizzazione. In questo modo l’organo interessato perde una parte della sua funzionalità.

Tra le forme più frequenti di infarto troviamo:

L’infarto del miocardio

L’infarto cerebrale

L’infarto intestinale

L’infarto polmonare

Da cosa può essere causato l’infarto?

La causa più frequente di infarto cardiaco o cerebrale è la malattia aterosclerotica delle arterie che portano il sangue a cuore e cervello. L’aterosclerosi interessa gli strati più interni delle pareti vascolari ed è caratterizzata dalla formazione di lesioni o placche ricche di grasso (colesterolo), cellule di parete in fase di proliferazione e cellule infiammatorie.

Le placche aterosclerotiche, che possono essere localizzate o diffuse, comportano spesso il restringimento del lume del vaso e vengono complicate con la formazione di un coagulo sulla loro superficie. Tutto ciò può produrre la brusca occlusione del vaso stesso, determinando un’ischemia prolungata e infarto dei tessuti a valle.

Con quali sintomi si manifesta l’infarto?

Ci sono sintomi specifici per ogni tipo di infarto; per cui è meglio consultare la singola scheda

Quali sono i fattori di rischio?

I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono suddivisi in fattori modificabili e fattori non modificabili.

Fattori non modificabili:

Età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.

Sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più frequenti negli uomini che nelle donne, in età giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto è analogo negli uomini e nelle donne.

Familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, in particolare se la patologia cardiovascolare del congiunto si è manifestata in età giovanile

Fattori modificabili:

Stile di vita: fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare troviamo sedentarietà e fumo di tabacco. Per questo motivo il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute è smettere di fumare e avere una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno.

Alimentazione: un’alimentazione con troppe calorie e troppi grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Una dieta sana ed equilibrata risulta essere molto importante per la prevenzione delle malattie cardiovascolari.

Ipertensione arteriosa: ci possono essere varie cause alla base della “pressione alta” o ipertensione arteriosa, che colpisce una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si trasforma col tempo in un progressivo malfunzionamento del cuore e nella comparsa di scompenso cardiocircolatorio.

Diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue provoca danni alle arterie e facilita l’aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta correlata ad aumentato rischio cardiovascolare.

Diagnosi

Per la diagnosi dei vari tipi di infarto, si rimanda alle schede specifiche.

Trattamenti

I trattamenti per l’infarto sono diversi a seconda della sede e delle condizioni mediche generali del paziente, per cui verranno riportati nelle rispettive sezioni.

Per i soggetti colpiti da infarto cardiaco o cerebrale, al trattamento ospedaliero fa seguito la prosecuzione di una terapia medica per bocca al proprio domicilio e la forte raccomandazione alla correzione dei fattori di rischio cardiovascolari modificabili. Inoltre vengono fornite indicazioni su come correggere eventualmente lo stile di vita e il regime alimentare e tali variazioni possono contribuire in modo significativo alla prevenzione di un secondo episodio.

 

 

 

Insufficienza aortica

Insufficienza aortica

 

L’insufficienza aortica è la conseguenza di un difetto di chiusura della valvola aortica, la valvola cardiaca che regola il flusso del sangue dal ventricolo sinistro all’aorta. Quando si verifica questa condizione, una parte del sangue refluisce nel ventricolo sinistro, non permettendo un pompaggio efficiente verso il resto dell’organismo.

Che cos’è l’insufficienza aortica?

Quando la valvola aortica non riesce a chiudersi correttamente parte del sangue pompato dal ventricolo sinistro ritorna indietro. Da ciò ne consegue la presenza di sintomi come affaticamento e fiato corto, ma si possono anche verificare delle condizioni più gravi, come l’endocardite o lo scompenso cardiaco. Solitamente, però, l’insufficienza aortica viene ben tollerata e i sintomi possono anche manifestarsi dopo decenni. Se invece, come a volte capita (per esempio in conseguenza di un’endocardite), compare improvvisamente un’insufficienza aortica grave, si manifestano fin da subito sintomi di uno scompenso cardiaco.

Da cosa può essere causata l’insufficienza aortica?

L’insufficienza aortica può essere determinata da qualunque disturbo che possa danneggiare la valvola aortica. Tra questi sono compresi le cardiopatie congenite, l’invecchiamento, l’endocardite, la dilatazione dell’aorta ascendente, la malattia reumatica, la sindrome di Marfan, la spondilite anchilosante, la sifilide e traumi all’aorta.

Con quali sintomi si manifesta l’insufficienza aortica?

In gran parte dei casi l’insufficienza aortica insorge gradualmente. Il vizio valvolare rimane asintomatico per il tempo in cui il cuore riesce a compensarlo, ma a lungo andare possono manifestarsi sintomi come debolezza e facile faticabilità, fiato corto durante l’esercizio o da sdraiati, fastidio e vero e proprio dolore al petto spesso esacerbati dall’attività fisica, svenimenti, aritmie, palpitazioni e gonfiore a piedi e caviglie.

Come si può prevenire l’insufficienza aortica?

Sebbene nella maggior parte dei casi l’insufficienza aortica non si possa prevenire, esistono alcuni accorgimenti che aiutano a ridurne il rischio:

Cura adeguata dei mal di gola, allo scopo di ridurre il rischio di malattia reumatica (sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche).

Attenzione verso la cura di denti e gengive, in modo da ridurre il rischio di endocardite.

Controllo sempre attivo della pressione arteriosa.

Diagnosi

Una diagnosi precoce consente di intervenire prima che l’insufficienza aortica diventi più grave mettendo a rischio la vita di chi ne soffre.

È possibile avere i primi sospetti se viene riscontrato un soffio al cuore in occasione di una visita medica.

Tra gli esami che possono essere prescritti per verificare l’ipotesi diagnostica sono inclusi:

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Consente la valutazione del meccanismo e dell’entità del rigurgito aortico, oltre che delle dimensioni del ventricolo sinistro e della sua funzione contrattile.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso si introduce la sonda dalla bocca e la si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente di visualizzare meglio le valvole e le strutture paravalvolari. Viene suggerito in particolare quando esiste il sospetto di un’endocardite.

RX torace (radiografia del torace): visualizza un ingrandimento dell’ombra cardiaca e spesso una dilatazione dell’aorta ascendente; in condizioni di scompenso cardiaco sono presenti segni di congestione polmonare (accumulo di liquidi nei polmoni).

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Possono essere rilevati segni di ipertrofia e sovraccarico (“iperlavoro”) del ventricolo sinistro.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente sta compiendo un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Può essere svolto allo scopo di confermare la mancanza di sintomi in presenza di insufficienza aortica grave e/o per valutare la risposta emodinamica all’esercizio.

Cateterismo cardiaco: metodologia invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione di informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue, e sulla pressione all’interno delle camere cardiache e delle arterie e delle vene polmonari. Viene effettuato raramente, in genere quando c’è una discrepanza tra la clinica (in particolare la gravità dei sintomi) e la gravità dell’insufficienza aortica alle indagini non invasive.

Trattamenti

La terapia dell’insufficienza aortica dipende dalla gravità del vizio valvolare, dai sintomi con cui si manifesta e dalla presenza o meno di segni di disfunzione ventricolare sinistra.

Nei casi meno gravi non risulta necessaria nessuna terapia, l’unica cosa da fare è monitorare regolarmente la situazione attraverso una valutazione clinica ed ecocardiogramma in modo da poter intervenire tempestivamente in caso di peggioramenti significativi. Se però la pressione arteriosa è alta, il medico prescriverà dei farmaci antipertensivi allo scopo di limitare la velocità di progressione dell’insufficienza aortica.

In presenza di insufficienza aortica grave con sintomi o segni di disfunzione ventricolare sinistra, la soluzione migliore è l’intervento chirurgico, che può prevedere:

la riparazione della valvola aortica

la sostituzione della valvola aortica

La prognosi è in genere buona. Dopo pochi mesi è già possibile tornare a una vita normale.

 

 

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